Quando e perché si può dire che una città sia bella o brutta?

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Quali sono le caratteristiche in base alle quali una città è definita bella o brutta? Vi sono alcuni elementi che contribuiscono a orientare in un senso oppure in un altro tale giudizio: la maggiore o minore presenza di monumenti, di architetture e soluzioni urbanistiche di valore: cattedrali, palazzi, piazze, viali. Ma anche (forse, anzi, soprattutto) contribuisce, magari inconsapevolmente, alla percezione della bellezza o bruttezza di una città la qualità media delle facciate dei suoi edifici, che a sua volta è determinata dall’armonia delle linee e dei volumi, dalla presenza o meno di “decorazioni”, dalla varietà delle soluzioni (l’uniformità è spersonalizzante e avvertita con angoscia), dal pregio dei materiali utilizzati. Uno dei grandi errori del Razionalismo e del Funzionalismo è stata l’idea che la qualità del disegno progettuale fosse sufficiente di per sé a garantire la qualità dell’architettura: alla quale invece concorre in maniera altrettanto fondamentale, se non preponderante, la scelta dei materiali, ché un muro in calcestruzzo armato a vista non è certo uguale a un muro – delle stesse dimensioni, disposto nella stessa maniera, nelle stesse condizioni di illuminazione – in mattoni, o rivestito di lastre di marmo pregiato.

Dicevo che l’uniformità non è un elemento di bellezza, ma piuttosto di alienazione, perché non offre punti di riferimento e non genera identità: il visitatore che, arrivato in una città per lui nuova, si imbatta in file di case tutte uguali, dalle facciate identiche e tinteggiate dello stesso colore, prova una sensazione di disagio. Pensiamo a certi quartieri di periferia costruiti secondo questo modello, con “blocchi abitativi” da urbanistica degna della Germania Est, pensati come nuovi “borghi”, o addirittura new towns indipendenti. Ciò non significa ovviamente che una città non debba avere un “tono” unitario, anzi: per esempio, l’identità può consistere nel prevalere di un determinato materiale da costruzione. Insomma, non è l’uniformità dei materiali a disturbare (tutt’altro: può essere un ingrediente felice – vedi il tufo bianco della vecchia Matera), e nemmeno quella delle soluzioni urbanistiche (la griglia ortogonale delle piante di Manhattan o di Barcellona non è certo avvertita come alienante), bensì la monotonia e la ripetitività ossessiva delle soluzioni architettoniche.

Un’altra questione riguarda il rapporto tra identità della città e bellezza, che non necessariamente coincidono: vi sono città dotate di una fortissima identità, architettonica e urbanistica, ma non certo belle. L’identità ha a che vedere con la riconoscibilità, con il senso di appartenenza dei cittadini, i quali avvertono di essere non soltanto abitanti di una urbs, ma membri di una civitas, in cui si riconoscono e si sentono inclusi. Il fenomeno storico dei Comuni, nato immediatamente dopo il Mille nell’Italia centro-settentrionale, è all’origine di una determinata maniera di vivere e di intendere la socialità, che ha lasciato un’impronta indelebile nella mentalità delle persone e nella conformazione stessa delle nostre città: quelli che lo studioso Marco Romano chiama “temi collettivi” (il centro, la piazza, la strada principale, il palazzo municipale, il teatro etc.) sono i modi in cui la cittadinanza ha rappresentato se stessa, creando e trovando la propria individualità. Non a caso, il concetto di piazza nasce in Italia, grazie ai Comuni, mentre è assente, per esempio, negli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra.

L’identità della città, insomma, è determinata da numerosi fattori. Essa peraltro incide su noi che vi abitiamo, su come viviamo, e persino, nel caso degli artisti, sulla loro modalità espressiva e stilistica: Piet Mondrian, il pittore olandese inventore del Neoplasticismo (un linguaggio che utilizza soltanto linee rette nere, piuttosto spesse, che si incrociano in posizione ortogonale definendo quadrati e rettangoli di varie dimensioni, colorati di bianco, grigio, rosso, blu o giallo), nel 1940, a sessantotto anni, si dovette trasferire a New York, per sfuggire alla guerra che infuriava in Europa. Ebbene, la sua severa produzione pittorica, che ormai da più di vent’anni correva lungo un binario rigorosamente stabilito, nella metropoli americana mutò sensibilmente, e in opere come Broadway boogie-woogie le abituali linee nere di demarcazione scompaiono, sostituite da “scorrimenti” di piccoli quadrati e rettangoli colorati connessi in allegri ghirigori scossi da un fremito dinamico, che sembrano riprodurre i flussi di passaggio delle persone nelle streets e nelle avenues di New York. È un esempio, tra i molti che si potrebbero addurre, di come l’identità della città incida profondamente sull’identità del cittadino, e sulla sua forma mentis.

P.S.

È ovviamente scontato che Lucca sia bellissima: nemmeno il caso di discuterne.

Paolo Bolpagni

Paolo Bolpagni
Paolo Bolpagni
Italiano del nordest trapiantato a Lucca, dal 2016 dirigo la Fondazione Centro Studi Ragghianti. Sono uno storico delle arti, sono anche organizzatore culturale e di musei. Ho scritto parecchi libri, cataloghi e saggi. Come curatore di mostre lavoro in Italia e in vari altri Paesi europei. Cerco di trovare il buono nelle individualità. Apprezzo l’ironia e la musica "forte".

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