La scuola italiana.

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È di questi giorni la polemica della Famiglia finlandese in fuga dalla scuola italiana. Polemica che ha fatto il giro dei social soprattutto per alcuni racconti coloriti riguardo ai comportamenti in classe.
Al di là del folclore merita di essere ripresa per riflettere sul nostro sistema di formazione. Perché la formazione dei nostri giovani è il nostro futuro. E, soprattutto, perché sappiamo bene che questo è un nervo scoperto per il nostro paese.
La scuola deve essere valutata, in ordine di importanza, su tre componenti: la capacità di formare persone, cioè di dare loro capacità di analisi della realtà e dar loro una etica sociale e del lavoro; la capacità di produrre lavoratori per il nostro mondo, cioè di far apprendere agli studenti delle competenze che possano essere utilizzate nel mondo del lavoro; la capacità di integrarsi nell’organizzazione della vita delle famiglie.
Negli anni ho avuto, con tre figlie, vari contatti con tutti i gradi delle nostre scuole. Oltre, naturalmente, all’esperienza mia personale e a quella che mi è stata riferita da amici e conoscenti. E la mia particolare esperienza, che credo che coincida con quella di molti, è che nella scuola ci sono validissimi professori che mettono cuore ed anima nel loro mestiere. Persone che lasciano un segno indelebile e positivo nella vita degli studenti che hanno avuto la fortuna di incontrarli come insegnanti.
Ma anche che accanto a questi ci sono altresì altri professori che avrebbero dovuto fare altro nella vita. Che, con la loro opera (o per la loro incapacità manifesta) fanno danni ai giovani loro affidati, non insegnando le materie che, a tutta evidenza, non conoscono o, peggio, avendo comportamenti tali da scoraggiare chiunque all’apprendimento. Una tale genia di professori non solo esiste (il che è già un problema) ma non è neppure rara. Non c’è anno scolastico, che ho avuto direttamente o di cui sono stato testimone come genitore, in cui un esponente di tale categoria di professori non abbia fatto la sua nefasta comparsa. Non c’è contesto scolastico in cui non si debba registrare almeno un nullafacente o un professore che non è portato ad insegnare.
Il primo obiettivo della scuola, cioè la capacità di formare persone e di dargli una etica sociale e del lavoro, è la componente di maggior peso e che dovrebbe essere presa in maggior considerazione. Storicamente era una delle grandi qualità che la scuola “dei nonni” dava ai ragazzi. E questa impostazione si è anche conservata fino a noi: è per questo che la cultura generale, quella umanistica, è così significativa nel panorama anche di istituti tecnici e, nel complesso, nella nostra scuola. Ma, accanto alla cultura generale dovrebbe essere insegnata anche una formazione etica. E con questo intendendo una formazione all’impegno, al lavoro, alla fatica e a considerare il proprio ruolo nella società come strumentale anche al bene comune e non solo come appagamento dei propri desideri. E come può una scuola in cui professori incapaci o svogliati possono convivere accanto chi si impegna senza che nulla possa accedergli, senza che nessuna misura possa essere adottata contro di loro; come può, dicevo, una simile scuola insegnare ai ragazzi l’etica del lavoro e dell’impegno? Non insegnerà piuttosto che l’essere «furbi» è preferibile?
Purtroppo, neppure nell’insegnamento delle competenze specifiche (il secondo obiettivo) la nostra scuola brilla per risultati. Non stupiscono più nessuno i continui test PISA che, valutando la nostra scuola, la trovano da decenni in posizioni assai basse delle classifiche internazionali, ormai prossime a quelle dei paesi del terzo mondo. Dai quali ci distinguiamo prevalentemente perché abbiamo più ragazzi che la frequentano e non, come sarebbe necessario, perché i nostri conquistano maggiori competenze. E non stupiscono perché, al di là delle difese di ufficio, nessuno è realmente convinto che la nostra scuola stia formando efficacemente le nuove generazioni. Anche in questo il peso dei suddetti cattivi maestri è assai grave.
Ma c’è anche dell’altro: i programmi delle scuole, negli anni, si sono effettivamente arricchiti di moltissime materie ma lo hanno fatto in modo casuale e senza una visione di insieme. Così oggi, paradossalmente, il problema è che si insegnano troppe cose (alcune delle quali veramente inutili) senza che queste competenze vengano davvero assimilate. Non sono previsti meccanismi di richiamo a distanza di tempo. Non è previsto che si vada a verificare la capacità di collegare tra loro nozioni diverse per vedere se si è formata una coscienza critica. Non è previsto che le materie oggetto di studio siano acquisizioni permanenti del soggetto. Senza tutto questo la formazione diventa nozionismo. E il nozionismo scolora, con gli anni, in vaghi ricordi.
Infine il terzo punto, che era assai presente, seppure in forma assai meno chiara, nella lettera della succitata pittrice. La capacità (o incapacità) della scuola di integrarsi nei ritmi della vita delle famiglie.
In questo la scuola non ha fatto nessun passo avanti dai tempi della riforma Gentile del 1923, riforma di cui quest’anno ricorre un centenario che, immagino, nessuno amerà ricordarsi. Il che è un peccato perché, a parte il capo dell’allora governo (Mussolini) la riforma in sé fu un grande successo che fece fare alla scuola un enorme passo avanti.
Ma, da allora, la società e i suoi ritmi sono molto cambiati. Se allora le donne che lavoravano erano una minoranza così non è oggi, e tutti diciamo che dovrebbero essercene anche di più a lavoro. Se allora le famiglie restavano legate a nonni e zii che spesso vivevano insieme o in complessi abitativi (come le case di corte o i paesi) oggi la vita di città ha altre regole.
Insomma, tutto oggi richiederebbe una scuola che sia compatibile con il ritmo di lavoro dei genitori: con figli che possano essere affidati all’istituzione scolastica mentre non si è in casa; con un sistema che non preveda necessariamente che la famiglia si debba impegnare a sostenere l’apprendimento dei figli per metà del tempo (i famosi compiti a casa). Mentre la scuola è organizzata attorno a ritmi esclusivamente mattutini lasciando le famiglie nella necessità di trovare alternative per la gestione dei ragazzi per metà del loro tempo.
Sono molti e molto complessi i nodi della scuola: dalla gestione dei professori alla propria missione. Ma in nessuno di questi vedo, da anni, un qualche avanzamento o un, seppur piccolo, miglioramento. Ma una società che non forma adeguatamente le sue nuove generazioni è una società in inevitabile declino.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Foto di George Becker

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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2 Commenti

  1. La scuola attuale non può insegnare o fare formazione perché eccetto pochi casi non ha formato il corpo insegnante. Sono errori che si ripercuotono da dopo il 1968 dove il sei comunitario ha messo alla pari tutti.

  2. Sono molto d’accordo; soprattutto, apprezzo la considerazione sulla capacità (o incapacità) della scuola di integrarsi nei ritmi della vita delle famiglie. Essendo mamma lavoratrice, con tre figli, questo è un aspetto che spesso può limitare, da un lato la piena realizzazione della donna nel mondo del lavoro, dall’altro la serenità dei figli che si trovano “sballottati” tra mille attività o diversi soggetti che lo devono “intrattenere”, finché la mamma non ritorna.

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