La nostra giustizia è malata?

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In questi giorni si è parlato molto di giustizia politicizzata. Lo si è fato in relazione ai noti fatti di cronaca: il caso del rinvio a giudizio per Donzelli e Del mastro, l’inchiesta sul ministro Santanchè e il caso La Russa Junior.

Tre casi che, a tutta evidenza, sono diversissimi tra loro per contenuti e per tipologie di polemiche. Se il primo è un caso eminentemente collegato all’azione politica, il secondo ha a che fare con l’onorabilità di un ministro e la conseguente opportunità del suo incarico. L’ultimo, invece, non sarebbe neppure un caso di cui la stampa si sarebbe davvero interessata se non per il legame di parentela tra l’imputato e il presidente del senato.

Cosa lega questi tre casi? La strumentalizzazione politica (di entrambi i fronti) e qualche palese violazione dei diritti degli imputati a favor di telecamere.

Nel primo caso abbiamo un GIP che, contraddicendo il parere della procura, che aveva chiesto l’archiviazione, obbliga il PM a formulare un atto di accusa per andare ad un procedimento. La cosa è infrequente. Molto infrequente. Perché, se il PM non ha riscontrato dati a sufficienza per procedere con un dibattimento, è assai probabile che non avrà neppure la convinzione che le accuse possano essere adeguatamente argomentate. E neppure potrà chiedere altro che quanto ha già chiesto al GIP in fase di dibattimento, cioè l’assoluzione visto che, quando si arriva dal GIP, le indagini sono finite e nuove evidenze non giungeranno. A meno che il PM non sia folgorato da illuminazione mistica sulla via del processo, rinneghi sé stesso dicendo al giudice che aveva sbagliato nelle sue valutazioni che lo avevano portato a chiedere l’archiviazione al GIP. Del resto, a differenza dell’avvocato che può mentire per difendere il suo assistito, il PM non può mentire o nascondere prove a discolpa. Né può chiedere una condanna se ritiene che l’imputato sia innocente. Il che rende quanto meno improbabile il fatto che non proponga un’assoluzione alla fine del dibattimento. Quindi perché spendere denaro pubblico per procedere? Difficile non essere tentati di pensare che o si cerca visibilità nazionale o si è guidati da pregiudizi personali.

Il secondo caso è di più difficile interpretazione. Nasce da un’inchiesta di Report del 19-06 (le date sono importanti…) in cui si ipotizzano significative responsabilità civili e fiscali (forse anche penali) a carico del ministro Santanché nella sua veste di privata cittadina e imprenditrice. Le accuse sono significative e dettagliatamente circostanziate. Quindi la cosa sarebbe giusto che procedesse sui suoi binari nei tribunali. Sia chiare: la stampa fa bene a riportare tutto quello che emerge. E pure l’opposizione fa il suo mestiere a chiedere le dimissioni di un ministro che è coinvolto in una spiacevolissima vicenda. Fin qui tutto regolare. Ciò che proprio non torna sono i diritti di ogni indagato, anche e soprattutto se colpevole. E tra questi diritti ci sono quelli che legano le informative obbligatorie di “garanzia”. Nel caso di specie diritti allegramente buttati alle ortiche.

Ai sensi della legge la “cartolina” di avviso di garanzia doveva essere stata mandata a marzo. Ma resta misteriosamente incagliata nell’ufficio del PM che non lo invia all’ufficio preposto alle notifiche fino al 23-06, ossia dopo che, ancora una volta, l’indagato ha saputo dai giornali della sua esistenza. Il fatto che la Santanchè sapesse già da ottobre dello stesso anno dell’esistenza di indagini (peraltro informazione acquisita sempre dai giornali e non da canali istituzionalmente corretti) non fa altro che aggiungere discredito nella gestione dei diritti degli imputati. Discredito che non potrà che alimentare dubbi su ogni sentenza (assolutoria o di condanna) sottraendo affidabilità ad un corpo dello stato che dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto e, purtroppo, non lo è.

Il caso La Russa è ancora più emblematico. Si tratta di un caso penale tra due giovani e perciò stesso delicatissimo. Ma le abbondanti fughe di notizie sono ben poco confortanti. Il clamore mediatico mal si concilia con un caso in cui a favore della denunciante non sono riportate evidenze schiaccianti: lei afferma di non ricordare alcuna violenza (semplicemente dice di non ricordare nulla); nessuno ha visto l’imputato (o gli imputati) compiere azioni contrarie alla legge; molti hanno visto la ragazza che pareva consenziente almeno fino a che si erano trovati nei luoghi pubblici. L’ipotesi di reato sembra tutta legata alle affermazioni dell’amica che dice che “non era più lei”. Ma, sempre sentendo testimoni, pare che la stessa (e l’amica) avesse assunto droghe (due “strisce di Cocaina”) e, presumibilmente, alcool. Quanto basta a spiegare almeno i vuoti di memoria.  Un simile contesto probatorio, se fosse confermato in dibattimento, aprirebbe ad una accusa solo se si accetta la tesi che fare sesso con una persona in alterate condizioni psicofisiche sia reato a prescindere. Cosa che aprirebbe ad un mondo di contenziosi di difficilissima gestione (per esempio: come gestire due persone, entrambe ubriache e/o drogate che, dopo il sesso, si accusano reciprocamente di sfruttamento della reciproca minorazione intellettiva?). Un simile contesto assai scivoloso avrebbe dovuto richiamare gli investigatori ad un sovrappiù di riserbo, anche per tutelare l’immagine della ragazza, nelle more di una più chiara valutazione dei fatti. Invece il clamore è stato immediatamente grandissimo e lascerà strascichi: sulla ragazza una reputazione non gradevole neppure se fosse riconosciuta come vittima della presunta violenza; sul ragazzo l’ombra del sospetto anche se fosse riconosciuto innocente.

La giustizia a favor di telecamera non sarà mai giusta. E non potrà mai garantire ai cittadini onesti quella fiducia di cui c’è bisogno per garantire davvero uno stato di diritto.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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