I tre nemici del volontariato oggi

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Ospite de “Di lunedì, il secondo del mese” di questo mese, il professor Adriano Fabris ha attaccato così, parlando del modo in cui nella mentalità comune (opinione pubblica, pensiero corrente) intende oggi il volontariato. Le idee dominanti, e più precisamente i tre “pericoli”, tre modi fuorvianti di pensare al volontariato. È una questione di come vengono considerate oggi certe esperienze.

Il primo “nemico” è l’individualismo. Il volontariato si fa insieme, e si fa per gli altri. È un atteggiamento di cura: si sperimenta con gli altri ed è al servizio degli altri. Al contrario “individuo” deriva nella sua radice latina dal concetto di “indiviso” – ossia chiuso in sé stesso. L’individualismo mette l’io in cima alle priorità.  Dopo il Covid l’individualismo ha avuto uno sviluppo tumultuoso, perché il lockdown ha impedito lo sviluppo della relazione con l’altro, gli altri.

Il secondo “nemico” sembra in contrasto col primo: perché l’individuo individualista è in realtà in connessione con gli altri, anche in modo intenso. Solo che la modalità di relazione è virtuale, mediata. Dalla contemplazione di sé stessi, oggi soprattutto esasperata dai social. La relazione dello stare insieme è mediata dal corpo, invece la “relazione pericolosa” è mediata dai social, finendo per surrogare l’esperienza reale. Scherzando, il prof. Fabris non si sottrae dal partecipare al tormentone mainstream di Chiara Ferragni che sui social sta esibendo la sua fragilità, è questa la sua strategia di comunicazione per recuperare. E sui social questa strategia paga, attira l’attenzione. È un punto che invita alla riflessione: se l’esibizione della fragilità è la strategia che nel quotidiano applicheremmo per aiutare una persona in difficoltà. Per Fabris in tutto questo noi siamo spettatori, ciò detto senza dare un giudizio. Ma lo spettatore non è il ruolo del volontario. Ecco la deviazione pericolosa.

Il terzo “nemico”: l’indifferenza (crescente). Cosa si intende per indifferenza? L’incapacità di riconoscere la positività che può pervenire dalle differenze altrui, dalle persone nella loro particolarità anche dolorosa, anche difficoltosa. I volontari dicono infatti “ricevo più di quello che do”. Noi viviamo in un’epoca di omologazione: apparentemente sembra che le differenze siano esaltate, ma proprio dalla continua ed esasperata affermazione e rivendicazione delle proprie differenze, quasi per contrappasso le differenze dell’altro passano in secondo piano, si appiattiscono e sbiadiscono nel caleidoscopio generale. Il risultato paradossale è l’omologazione, è un mondo di massa, uniforme. Un mondo pericoloso, che va dietro al primo pifferaio che si propone. Se non ci si cura delle differenze altrui, l’indifferenza diventa disinteresse. E se c’è il disinteresse non c’è più la molla che fa dire “I care”, me ne prendo cura. Purtroppo questo accade anche nel mondo dei giovani. La demotivazione è un punto nodale, la mancanza di prospettiva e di speranza è un portato del nostro essere chiusi in noi stessi.

Quali gli antidoti? All’individualismo: la relazione l’apertura all’altro. Nessun uomo è un’isola, la solitudine si può facilmente rompere. All’indifferenza alla fragilità: la vera considerazione della particolarità, dei dolori e delle gioie delle persone. Poiché questi sono fatti e situazioni che “si incarnano”, che vivono nel mondo corporeo delle sensazioni e delle esperienze. Dobbiamo reincorporarci e sentirle nel corpo e nella carne. Senza rifiutare la modernità ma anzi con l’espansione che il digitale può dare all’esperienza.

C’è poi il tema del collegamento dei doveri ai diritti. Nel discorso pubblico purtroppo è passato il sopravanzare dei diritti ai doveri. Ma diritti e doveri stanno in un rapporto simbiotico. Questo è così nella Costituzione, ed è così anche nella dimensione personale della relazione con l’altro. Il dovere non è un sacrificio, in realtà è il sale di tutto. Perché fonda le basi della convivenza su di un circolo virtuoso e l’essere umano infatti è un animale sociale. Per estensione, il discorso sui doveri – sull’impegno – per Fabris è applicato anche al lavoro, un qualcosa oggi in tumultuosa trasformazione, e sta cambiando anche il nostro rapporto con esso. Oggi la domanda non è se il lavoro ci dà soddisfazione o meno, se ci si realizza. Il lavoro è inteso oggi sempre più come una cosa che si fa per sopravvivere.

Il problema è insegnare tutto questo. Oggi forse lo si insegna un po’ poco. Le relazioni si insegnano solo gestendo il collegamento dei diritti e doveri. La scuola, ma anche i luoghi di socialità tra pari, non sono più presidiati in questo modo. È venuta meno la nostra capacità di mediare, viviamo infatti in un’epoca di disintermediazione: vuol dire che non sappiamo più trovare il punto di equilibrio che rappresenta la sintesi di esigenze diverse, ossia il punto di mediazione. E infatti oggi viviamo la “polarizzazione”. I più giovani oggi come possono reagire agli stimoli, alle informazioni dei social? In modo semplificato, col like. Inoltre i social non sono un ambiente neutro. Il mitico algoritmo è basato sul principio del simile che attira il simile. E cosa è mancato, dunque, nell’educazione? La capacità di gestire queste nuove situazioni. Fabris racconta la sua esperienza di esperto nella commissione ministeriale per l’educazione civica, che aveva il compito di licenziare le linee guida per l’insegnamento della materia nelle scuole. Alla fine dopo vari cambi di governo e ministri, con stop-and-go, il lavoro è stato consegnato. Il ministro successivo ha buttato via tutto. Poi la commissione è stata di nuovo costituita. Ancora un cambio di governo, che ha riconfermato la commissione che aveva rimesso il mandato, e il lavoro aggiornato viene consegnato il 30 settembre dell’anno scorso. Morale: le linee guida sono in valutazione da parte del sottosegretario Fazzolari.

Parlando da educatore ed interagendo con gli educatori presenti nell’interessato pubblico, Fabris ha posto il tema di come si possa resistere e reagire alla concorrenza dei new media nella funzione di insegnamento. Non sul piano dei contenuti: l’AI (ma anche solo Wikipedia) batte facilmente l’uomo sul piano della disponibilità di nozioni. Il ruolo dell’educatore va invece focalizzato sul modo in cui si accolgono i contenuti e su come si analizzano criticamente.

E parlando del modo in cui veicolare il messaggio educativo ai giovani, il professor Fabris ha parlato anche di come comunicare la bellezza del volontariato oggi. Si può condividere il fatto che facendo volontariato si ha un vantaggio, si riceve molto di ritorno, parlare della bellezza della gratuità, del dono. Soprattutto, c’è un elemento a cui i giovani sono molto sensibili: i ragazzi hanno un grande senso della giustizia. Per questo i fatti di Pisa hanno avuto un simile effetto: sono stati percepiti come ingiusti. Dobbiamo allora comunicare che fare volontariato è un modo di portare un po’ di giustizia. Un’altra delle tendenze di oggi è la proceduralizzazione: la tendenza a ingessare i processi nelle procedure predefinite, siamo asserviti alle procedure. La procedura smorza l’entusiasmo. Anche per i volontari, soprattutto per i giovani.

Dal dibattito col pubblico è emerso infine lo spunto per una riflessione di etica (Fabris è tra l’altro esperto e docente di etica della comunicazione) applicata alla dimensione integrale in cui soprattutto i giovanissimi vivono il mondo digitale, in una compenetrazione totale tra “offline” e “online”, quella che il filosofo Luciano Floridi ha posto alla base del suo “manifesto dell’onlife”. Per Fabris c’è molto di vero in tutto questo, dal punto di vista dello stato di fatto: è una descrizione corretta della realtà in cui vivono i giovanissimi. Ma, argomenta il professore, il problema inizia qui: riconoscere che le cose stiano così non implica la validazione di questa dimensione. Dobbiamo rifiutare con forza di accettare che la realtà si sia espansa, la realtà è quella che tocchiamo. È, questo, esattamente un problema etico. Le due realtà devono essere distinte per fondare una pedagogia etica.

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