E’ morto Maradona, il migliore di sempre. E ora lasciatelo in pace

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Mi trovavo nell’ufficio di un idraulico quando è arrivata la notifica dell’ultima notizia. Il titolo era questo: “È morto Diego Armando Maradona”. Ero con la mia ragazza e parlavamo della nostra futura casa, del bagno, del posizionamento dei sanitari, di come vorremmo la doccia, le mattonelle, i pavimenti, lo specchio. L’idromassaggio sì o no? A quella domanda mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, ho sentito nelle orecchie la voce del mio professore di chimica delle superiori. Mi chiedeva la legge di Proust mentre io pensavo se durante la ricreazione sarebbe stato giusto passare di fronte alla 3°C per strappare un saluto da una morettina con il caschetto che mi aveva sorriso sul pullman la stessa mattina. Stavolta però in mezzo c’erano la casa, la fidanzata, le scelte determinanti della vita. Poi ci sono anche i 40 anni, i miei. Diversi dai 15 di quel ragazzino ancora un po’ confuso dei corridoi di ragioneria a Pescia, il mitico “Marchi”. Giuro però che non capivo niente. Annuivo, facevo i cenni della persona interessata, dicevo sempre di sì, ma vedevo tutto buio, avevo la testa lontana anni luce, anzi anni, quelli del film della mia vita. Era finito tutto, per sempre. C’era la scritta THE END su uno sfondo scuro, c’era silenzio nella stanza dell’idrailuco. Parlavano tutti, ma non li sentivo. Era morto Maradona, eravamo morti tutti noi, eterni incompiuti, nati in Italia a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Sfigati, illusi e disillusi, Berlusconiani, ingrifati di Ambra Angiolini, nati analogici e invecchiati boomers digitali, con il peso di non aver soddisfatto le aspettative dei genitori che per noi avevano già preparato una villetta a schiera, un lavoro sicuro e una station wagon. 

Avevamo però un Dio: Diego Armando Maradona che ci ha reso la vita migliore, ci ha tenuti appesi a un sogno. E non lo era solo per i napoletani, che grazie a lui avevano gustato il sapore del riscatto e avevano battuto chi li considerava terroni, sporchi, malandrini. Maradona rappresentava il nostro calcio, straordinario al tempo. Ogni squadra aveva il suo artista, il simbolo per il quale urlare a squarciagola ed emozionarsi. Io ero granata, tifoso del Toro e impazzivo per Leo Junior, ma il nostro campionato era pieno di campioni incredibili, i migliori del mondo. 

Ogni giorno, dopo la scuola, indossavamo le loro magliette andavamo nel prato dietro casa con un pallone: quattro zaini appoggiati sull’erba e il campo era fatto. Giocavamo per ore, fino a quando non veniva la sera, fino allo sfinimento, provando e riprovando, immaginandosi come i nostri idoli, sognando che un giorno, forse, saremmo diventati come loro. Come Maradona no, lui era diverso. Lui era Dio. Lo ammiravi, lo applaudivi anche quando segnava contro la tua squadra del cuore. Lo amavi. 

Sì, perché per capire fino in fondo cosa è stato Maradona, è necessario uscire dallo schema dell’atleta, del calciatore. Del rivale. Per capire Maradona dobbiamo elevarci, toccare le sfere dell’innaturale, come erano spesso le sue giocate in campo, della divinità scesa sulla terra con un pallone tra i piedi, per far felici le persone. Questo è stato e sarà per sempre Maradona: felicità. Emozioni e lacrime. C’è una dimensione eroica nelle sue gesta, nella sua vita a mille all’ora, di uomo fragile e spesso troppo piccolo per essere Maradona, il più grande del mondo, di tutti i tempi. Per portarsi dietro tutto quel casino dal quale provava a fuggire anestetizzandosi con quella merda, la cocaina. 

È questo il punto. Maradona è stato il migliore, non si discute. Ha giocato a calcio con la passione di un bambino fino all’ultimo giorno. Lo ha fatto perché era felice così ed era felice quando faceva vincere la sua gente, il Barrio, i disgraziati di questo mondo ipocrita. Perché lui giocava per la loro felicità (e lo ha sempre detto), per i poveri, per i deboli, per quelli che restavano sempre un passo indietro. Per i terroni, per i napoletani perdenti, per abbattere le pareti del potere corrotto, per urlare al mondo che anche chi parte svantaggiato e cresce in una casa senza soffitto a Villa Fiorito, può salire fino in cima al mondo come lui o più semplicemente può anche essere felice, grazie al suo genio. È il loro eroe, è la speranza di un mondo più giusto un giorno.

Ma c’è ancora chi divide l’uomo dal calciatore e si dimentica di Dio. Cattivo esempio, drogato, obeso. E forse peggio. Quando mai Maradona ha detto di voler essere un esempio? Non voleva esserlo e non lo è, ma è stato un amico sincero, un uomo generoso, un condottiero del popolo, un avversario onesto. Ha nutrito passioni e le ha spente con le sue stesse mani. Ha acceso il fuoco dell’amore e ci si è incendiato. È salito sul tetto del mondo è si è lanciato nel vuoto. Cosa vi ha rubato per pensare fosse solo un drogato? Purtroppo lo era e, come dice nel grandioso documentario di Kusturica, “chissà che giocatore sarei stato non avessi avuto a che fare con la cocaina”. Saresti stato l’unico migliore di te, mi verrebbe da rispondere. 

Perché, lo ripeto di nuovo: Diego Maradona è stato il migliore. Di sempre. E se non gli perdonate le fragilità di un artista al pari di Jimi Hendrix, Sid Vicious, Caravaggio e James Pollock, non lo avete capito. Non avete capito chi sono i cattivi di questo mondo, non avete capito che qui non si tratta di calcio, ma di Dio. 

E se voi siete quelli degli allenamenti, delle diete, della vita sana, del gel nei capelli e degli addominali di Cristiano Ronaldo, quelli delle performance, dei Palloni d’oro, dei gol segnati, delle Champions League, vi rispondo come avrebbe fatto Diego:“Je so pazzo, nun ce scassate ‘u cazzo”.

Andrea Spadoni
Andrea Spadonihttp://www.andreaspadoni.com
A 25 anni potevo aver già fatto tutto: il diploma di ragioniere, il lavoro in banca e la villetta a schiera. Non è andata così. Sono un giornalista mio malgrado, e oggi mi guadagno da vivere aiutando le persone a comunicare su internet, ma il mio sogno è sempre stato quello di tagliare il prosciutto di Parma al banco di una gastronomia.

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