Arte e totalitarismo: la storia esemplare dell’ucraino Malevič

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Il Suprematismo è un movimento creato dall’ucraino Kazimir Malevič (1878-1935) intorno al 1913, e teorizzato dapprima nel 1915 in un manifesto redatto dall’artista insieme con il poeta Vladimir Majakovskij, e poi in un saggio pubblicato nel 1920. Tra le ricerche astrattiste sviluppatesi negli anni Dieci, questa è forse la più radicale, perché non parte dalla realtà semplificandola, bensì crea un linguaggio del tutto autonomo, per così dire autogenerato dalla mente. Malevič vuole dar vita a una pittura non-oggettiva, non-descrittiva, puramente spirituale, fondata sulla «supremazia della sensibilità pura». L’opera più famosa è il Quadrato nero su fondo bianco, che egli definì «icona del nostro tempo».

Kazimir Malevič Quadrato nero su fondo bianco 1915-1920 (002)

Era un’epoca di rivoluzioni artistiche, ma poi arrivò quella politica, nell’autunno del 1917. Da lì in poi le cose sarebbero cambiate. Si affermarono, per esempio, i Costruttivisti, che attribuivano un importante significato alla componente comunicativa e propagandistica: liberata dal compito della “rappresentazione”, la pittura diventava “informativa”. Il nuovo regime comunista era ben disposto a favorire questo impegno, nonché l’elaborazione di un’estetica programmaticamente anti-borghese e rivoluzionaria, il cui processo di revisione stilistica, peraltro, risultava facilitato, in confronto al resto d’Europa, dall’assenza di consolidati e vincolanti trascorsi accademici, o di radicate tradizioni figurative.

Ma dopo il 1920, mentre gli artisti sovietici cercavano di fornire contributi specifici all’edificazione di una nuova realtà sociale, politica ed esistenziale, Kazimir Malevič smise quasi di dipingere, mirando a una dilatazione nelle tre dimensioni dei suoi quadri suprematisti: nacquero così le sculture dette architektony e i disegni preparatori denominati planity. Si trattava di progetti ideali di architetture abitative sopraelevate, spesso in forma di aereo e, da quanto emerge nei suoi appunti, da collocarsi addirittura nell’atmosfera terrestre e negli spazi interplanetari; il fine era quello di contribuire, mediante l’invenzione d’inedite modalità di insediamento umano, allo sviluppo di una moderna sensibilità, più vibrante, evoluta e perfezionata.

Parallelamente, Malevič si dedicò a una vivace attività didattica, che lo vide nel 1917 all’Accademia di Mosca, l’anno successivo in quella di Vitebsk fondata da Marc Chagall, dal 1919 di nuovo nella capitale presso la Scuola nazionale d’arte applicata e, nel 1924, alla direzione dell’Istituto di cultura di Leningrado (così ribattezzata in omaggio a Lenin). Il suo insegnamento, che intendeva porsi in sintonia con i grandi mutamenti economici e sociali in atto nell’Unione Sovietica, mirava a diffondere e generalizzare una percezione del tutto nuova della realtà, da perseguire attraverso il ricorso a una logica liberata dai vecchi punti di riferimento (per esempio, le idee di “alto” e “basso”), e basata sull’impiego disinvolto e spregiudicato delle più recenti tecnologie.

Frattanto, la notorietà delle ricerche artistico-speculative di Malevič si era diffusa in molte parti d’Europa, esercitando un influsso notevole sulle avanguardie degli anni Venti: nei Paesi Bassi Theo van Doesburg e Piet Mondrian realizzarono architettonicamente alcuni suoi studi del 1923; in Germania, gli riuscì nel 1927 di pubblicare una silloge di propri scritti, raccolti sotto il titolo Die gegenstandslose Welt (Il mondo non-oggettivo) e apparsi come undicesimo volume della collana dei “Libri del Bauhaus”; nel medesimo anno furono allestite, a Berlino e a Varsavia, due ampie mostre antologiche a lui dedicate.

In Unione Sovietica, però, le sperimentazioni di Malevič si trovavano ormai sotto il fuoco congiunto dei Costruttivisti, che accusavano di “misticismo” il suo utopico mito interplanetario di un “nuovo mondo suprematista”, e della ben più temibile politica culturale staliniana, che vedeva con sospetto la sbrigliata immaginazione visionaria (che conservava pur sempre una componente e uno sfondo spiritualista nel contesto di un Paese divenuto forzatamente ateo) dell’artista ucraino. La repressione si fece presto esplicita: nel 1929 fu privato di tutti i prestigiosi incarichi ufficiali sino ad allora ottenuti, e l’anno successivo fu imprigionato con l’accusa di “formalismo” (ma rilasciato pochi giorni dopo per motivi di salute).

Kazimir Malevič Lavoratrice 1933 (si noti in basso a sinistra a mo’ di firma il piccolo quadrato nero su fondo bianco)

I quadri dell’ultimo periodo si adeguarono a una maniera figurativa più conforme al gusto ufficiale, improntata a un realismo classicista di difficile valutazione. Tale scelta, probabilmente, non fu libera e autonoma, bensì conseguenza di un’espressa costrizione o di un ricatto politico; non a caso, Malevič ricominciò in quegli anni a firmare i propri dipinti con un piccolo quadrato nero su fondo bianco, emblema e ricordo del suo lavoro più radicale e avanzato. Quel che è certo, è ch’egli morì in completa povertà, dopo esser stato emarginato e umiliato; dal 1935 al 1962 fu persino interdetta la visione delle sue opere, che dovettero attendere l’era gorbačëviana, alla fine degli anni Ottanta, per poter risalire dalle cantine dei musei sovietici. Adesso c’è da chiedersi quale sarà la sorte dell’arte e della cultura russe, schiacciate sotto il tallone dell’assolutismo violento e imperialista di Vladimir Putin, uno dei tiranni della nostra epoca.

Paolo Bolpagni

Paolo Bolpagni
Paolo Bolpagni
Italiano del nordest trapiantato a Lucca, dal 2016 dirigo la Fondazione Centro Studi Ragghianti. Sono uno storico delle arti, sono anche organizzatore culturale e di musei. Ho scritto parecchi libri, cataloghi e saggi. Come curatore di mostre lavoro in Italia e in vari altri Paesi europei. Cerco di trovare il buono nelle individualità. Apprezzo l’ironia e la musica "forte".

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