Working poor

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In questi giorni è stata spesso al centro del dibattito pubblico: la questione della dignità del lavoro.

Lo è stata per via del decreto del 1° maggio. Ma anche per il dibattito sul fatto che la IA (intelligenza Artificiale) potrebbe rendere certi lavori superflui. E su questo ha fatto particolare scalpore la protesta delle star di Hollywood che hanno promosso uno sciopero per contrastare l’uso di tali strumenti nel cinema.

E certo fa un certo «je ne sais quoi» sentire l’uso delle parole e degli strumenti della protesta sindacale alla CGIL (perdita di posti di lavoro, dignità del lavoro, sciopero) nelle bocche di chi è sempre stato élite per antonomasia tanto che persino il loro nome collettivo evoca la trascendenza dalle questioni del mondo: le star, le stelle.

Ma il mondo è fatto così: tondo tondo non sai mai se sei in cima o in fondo. E allora forse dovremmo, tra qualche anno, preoccuparci di un fondo speciale per il sostegno delle ex-star del cinema che non trovano più lavoro. Magari potremmo proporre un meccanismo simile al nuovissimo Assegno di Inclusione. Ma dovrà essere concesso a patto che non stiano sul divano. Per ora comunque possiamo dormire sonni tranquilli: le nostre amate star non sono ancora in pericolo di povertà.

Scherzi a parte, chi invece deve fare una seria riflessione sono i nostri giovani. Il tema dei working poor, ossia delle professionalità sottopagate è un tema reale. Ma è anche uno «specchietto per le allodole» nel senso che i lavori sottopagati sono presenti accanto a lavori per cui non si riesce a trovare personale. E il problema è che troppi giovani non hanno fatto studi adeguati o con sufficiente impegno.

È un fatto che gli occupati siano più di quanto siano mai stati, seppure in un contesto di calo demografico. E che, a fronte di circa 2,3 milioni di disoccupati, ci siano circa 500’000 posti di lavoro vacanti. E, è bene precisarlo, sono posti di lavoro ad alta retribuzione ed elevata stabilità.

E qui sta il punto: non è del tutto vero che il lavoro non c’è. È vero che non c’è abbastanza lavoro a bassa competenza per tutti coloro che cercano quel tipo di lavoro. E che quello che c’è, è ovviamente inflazionato e quindi poco pagato e poco stabile.

Ma è anche vero il contrario: nessun lavoro può essere affrontato senza impegno e, troppo spesso, questo è carente.

Voglio condividere un’esperienza che mi è stata raccontata: un ristorante, qui a Lucca, ha cercato un cameriere per oltre 2 mesi. Ora l’attività di cameriere non è di quelle che richiedono studi complessi. Eppure il posto è rimasto vacante per tutto quel tempo perché chi si presentava collezionava una fila di figurette: da persone che non avevano alcuna attitudine per il contatto con il pubblico a persone che erano talmente lente o così poco attente ai compiti assegnati che finivano per essere licenziati ancora prima di una settimana di lavoro. Questo per dire che tutti i lavori, ma proprio tutti, richiedono impegno e attenzione. Quella che gli americani chiamano etica del lavoro. E, purtroppo, capita spesso di trovare, soprattutto tra i giovani, coloro che pensano di poter affrontare il mondo del lavoro svogliatamente, come un obbligo che non si vede l’ora che finisca per tornare alle attività che davvero ci interessano. E così non si lavora. Naturalmente un esempio non fa statistica ma aiuta a capire la situazione.

È ovvio che camerieri (e in generale lavori a bassa specializzazione) sono un tipo di lavoro che presenta uno livello di stipendio basso e un livello di precarietà alto.

All’estremo opposto troviamo il lavoro altamente specializzato. Per quello esiste quasi sempre una estrema facilità di trovare lavoro. E anche un elevato livello di stipendio.

In questi contesti la stabilità del lavoro è un elemento in mano al lavoratore: è lui che sceglie se restare in azienda o se vuole andarsene. È lui che spesso cambia per alzare lo stipendio o anche solo lo minaccia per avere degli aumenti. Per questi tipi di lavori, il rapporto di forza è persino ribaltato a favore del lavoratore rispetto al datore di lavoro. È il caso di gran parte dei 500’000 posi vacanti a cui accennavamo. Ma questi sono posti che richiedono competenze elevate. Competenze che si dovrebbero trovare a scuola o nelle università ma che spesso non vengono date a sufficienza. Sono competenze che richiedono aggiornamento costante e che sono anche legate ad un atteggiamento proattivo nei confronti del lavoro (pensate ad esempio a ruoli di responsabilità e progettazione).

Una volta (nel dopoguerra e fino agli anni 60) i ragazzi avevano presente che la formazione era fondamentale per trovare una sistemazione (poi arrivò il ’68…). Oggi non è avvertito come problema: la formazione non è più vista come il passaggio fondamentale della propria storia di vita ma come il tempo del divertimento che durerà poco. E che quindi va vissuto il più possibile. Al massimo.

Allora la giovinezza non è più il momento in cui costruire la persona di domani ma la fase del divertimento in cui poter godere della vita prima di dover vivere la «triste» condizione del lavoratore. E così le opportunità di formazione (che sono già loro di qualità limitata) si sprecano e si arriva impreparati al mondo del lavoro. Con la scarsa qualità della formazione che è l’altro problema che esiste ed è grave ed è sottovalutato.

Oggi esiste un problema lavoro ma, paradossalmente, la parte più complessa della soluzione è trovare persone che vogliano «lavorare» sulla propria formazione per avere posti di lavoro migliori e stipendi più alti. Che ci sono ma non trovano addetti.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Foto di MART PRODUCTION

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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2 Commenti

  1. Il tema mi sembra molto delicato.
    Il posto di lavoro: cosa è? un qualcosa da fare per avere di che vivere o un qualcosa che dia soddisfazione a chi lo compie?
    O un qualcosa che unisca le due cose?
    Nella realtà, una di queste tre cose, a seconda delle circostanze in cu si nasca e, poi, si viva.
    Fortunato chi può vivere di un lavoro che, oltre che a dargli da vivere decorosamente, gli piaccia e lo realizzi.
    Io, pensionato, ho avuto una fortuna e una sfortuna: ho potuto avere un lavoro ben retribuito e con tutte le garanzie del posto a tempo indeterminato ma, tale lavoro, era lontanissimo da ciò che mi sarebbe piaciuto fare per vivere, era un un qualcosa che compivo per mia dignità personale col massimo del rigore e dell’impegno e correttezza, era un qualcosa che mi ha dato una vita decorosa; ma non era ciò che, purtroppo, mi sarebbe piaciuto fare se avessi potuto rischiare con “le spalle coperte” da una famiglia ricca. Comunque non mi lamento, va bene così.
    Mentre sento riportare da alcuni media e alcuni politici di giovani che ora si lamentano di non trovare il posto desiderato e dei prezzi delle case o dei mutui che aumentano il tasso di interesse per l’inflazione, rimango allibito: giusto o sbagliato che sia si pretende che un ventenne abbia casa di proprietà senza però avere un posto fisso? Io ho stipulato un mutuo, a tasso fisso, al 5,75%, al momento del pensionamento e lo sto ancora pagando. Nel contempo sento alcuni media compiangere i poveri giovani che non possono acquistare casa perché i tassi dei mutui salgono o perché, chi ha stipulato un mutuo a tasso variabile, come avrebbe dovuto sapere prevedere “nel caso”, vede ora salire il tasso per l’inflazione.
    Chiedo scusa se sembrerò spietato, ma mi sorge una domanda: il vecchio detto del non fare il passo più lungo della gamba, esiste ancora? Chi, non avendo un posto fisso può stipulare un mutuo, peraltro a tasso variabile, in un momento in cui i tassi variabili erano intorno all’1,5 e i fissi al 2,5, senza prevedere una eventuale inflazione? E, allora, mi chiedo: perché ci si lamenta? Allora chi, previdente e prudente, ha pagato per decenni un tasso fisso più alto è forse fesso?
    Hanno ragione i giovani di oggi nel dire che non si trovano facilmente posti di lavoro a tempo indeterminato e garantiti, questo è vero.
    E’ vero anche, peraltro, che, spesso e, soprattutto oggi, sentivo alcuni genitori e alcuni politici, che si chiedevano/chiedono quali siano gli indirizzi di studio per i lavori che diano più garanzia, poi, di trovare lavoro; ammesso che, nel frattempo che si completino gli studi, le necessità dei datori di lavoro non cambino. Però mi sono sempre chiesto se sia lecito che genitori indirizzino un figlio verso determinati studi solo per fornire alla “società” ciò di cui il mondo del lavoro abbia bisogno, senza chiedersi quale sia l’eventuale passione, o desiderio, o attitudine del ragazzo, cosa voglia fare della sua vita. Purtroppo, in alcuni casi in cui i genitori non siano economicamente dotati, ciò potrebbe sembrare necessario e inevitabile.
    C’è, però, nonostante questa ultima considerazione, un qualcosa che mi fa pensare, probabilmente erroneamente, al “procurare carne da macello a chi abbia bisogno di determinati lavori”, al creare una persona autosufficiente economicamente ma, in alcuni casi, infelice fino a pensione, ormai sempre più lontana e misera, purtroppo. E questa è la situazione dei più dotati e fortunati che, tale posto di lavoro, riescono a trovare.
    La realtà di molti è “lavoretti in nero” e, in genere, comunque, anche per i posti garantiti, lavori abbastanza sottopagati rispetto al costo della vita.
    Un circolo chiuso che si ritorce anche contro i datori di lavoro e l’economia in genere: Ford raddoppiò gli stipendi e, così, i suoi operai gli compravano le auto che producevano!
    Cosa proporre in un momento in cui l’intelligenza artificiale, ma anche la digitalizzazione, minacciano di eliminare posti di lavoro?
    Io rammenterei la vecchia massima “lavorare meno, lavorare tutti”, corretta però con “pagati bene”, ovvero con aumento retributivo, affinché la ricchezza venga ridistribuita tra datore di lavoro e lavoratore; i datori di lavoro, poi, troveranno compenso nei consumi che i lavoratori, garantiti e ben pagati, e con tempo a disposizione per la loro vita al di fuori del lavoro, effettueranno; sperando che siano consumi “intelligenti”.
    Così, col tempo rimasto a disposizione, anche “persone” che abbiano una passione per qualcosa che esuli dal loro lavoro, ma non la possibilità di farlo professionalmente, potranno comunque esercitarla nel tempio libero dal lavoro.

    Altro che la vecchia formula della “patrimoniale”, ovvero far ri pagare a chi già le tasse le ha pagate, “di nuovo” le tasse a seconda di come spenda, o risparmi, ciò che gli rimanga del frutto del suo lavoro, dopo aver “già” pagato le tasse!
    Una volta calcolata l’Irpef in maniera non proporzionale, ma “progressiva”, si è più che ottemperato al dettato costituzionale che chi più ha più debba contribuire!
    Non riesco a capire per quale motivo, alla luce di quanto esposto, si ritenga “di sinistra” il proporre la patrimoniale! Di sinistra è far vivere del proprio lavoro bene e dignitosamente tutti!
    Certo, forse è più facile, nei programmi, proporre la patrimoniale che trovare soluzioni per politiche atte a creare occupazione?
    Come si può chiedere di fare, a stipendi anche garantiti, un lavoro che già si sa che durerà solo qualche mese e poi finirà? Chi desidera ciò costituisca una cooperativa per cui poi i soci si ridistribuiranno, nei mesi di inattività, gli alti utili conseguiti nelle stagioni di grande lavoro.

    Dimenticavo quasi: una volta esisteva la “scala mobile” che proteggeva i lavoratori dall’inflazione.
    E’ stata tolta negli anni ’90 adducendo il fatto che così l’inflazione si rincorreva…
    E, ora che l’inflazione non si rincorre più, chi paga? Spero “non tutti”!

    Un’altra cosa quasi dimenticavo: da molti anni, ormai, si è dimenticato qualcosa, immagino quando vedo “bonus”, tagli al cuneo fiscale (compensati dallo Stato per i contributi), premi una tantum, insomma, “regali” vari ai lavoratori:
    che lo stipendio andrebbe pagato dal datore di lavoro e non dalla fiscalità generale!
    Altrimenti, il “bonus” che ricevo, poi lo ripago; o per l’aumento del debito pubblico, o per l’aumento delle tasse inevitabile necessario per pagare tali bonus!

  2. Integrerei quanto già scritto:
    “… Cosa proporre in un momento in cui l’intelligenza artificiale, ma anche e soprattutto la digitalizzazione, minacciano di eliminare posti di lavoro?
    Io rammenterei la vecchia massima “lavorare meno, lavorare tutti”, corretta però con “pagati bene”, ovvero con aumento retributivo, affinché la ricchezza venga ridistribuita tra datore di lavoro e lavoratore; i datori di lavoro, poi, troveranno compenso nei consumi che i lavoratori, garantiti e ben pagati, e con tempo a disposizione per la loro vita al di fuori del lavoro, effettueranno; sperando che siano consumi “intelligenti”.
    Così, col tempo rimasto a disposizione, anche “persone” che abbiano una passione per qualcosa che esuli dal loro lavoro, ma non la possibilità di farlo professionalmente, potranno comunque esercitarla nel tempo libero dal lavoro…”
    con:
    Perché si lavora per vivere, e non viceversa.

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