Oltre la superficie. Per la valorizzazione delle differenze

-

Il giorno 15 luglio presso “La Brilla – porta del parco” Quiesa – Massarosa tonra Volontariato in Festival, l’annuale evento organizzato dal Centro Nazionale per il Volontariato. L’edizione del 2023 ospiterà una mostra che dà il titolo alla manifestazione: “Oltre la superficie – Per la valorizzazione delle differenze”. La mostra è curata da Rebecca Bucci e le illustrazioni sono di Rebecca Tozzetti, entrambe volontarie in Servizio Civile presso il CNV ed accomunate dalla passione per l’arte e la cultura nerd:

“L’idea per la mostra è stata la naturale conseguenza della scoperta del nostro comune interesse nei confronti di queste tematiche, che oggi sono così centrali nel dibattito culturale. Questa occasione ci ha dato l’opportunità di parlare di disabilità nel modo a noi più congeniale, ovvero attraverso personaggi tratti da varie opere di finzione e adattamenti cinematografici“.

Negli ultimi anni infatti, in seguito alle grandi mobilitazioni createsi attorno ai temi dei diritti delle categorie marginalizzate, abbiamo assistito all’emergere di una nuova sensibilità, che ha prodotto come effetto la ricerca di nuovi modelli di rappresentazione. L’ archetipo dell’eroe classico mal si sposa con una realtà sfaccettata e complessa che sempre più tenta di riflettersi e penetrare, seppur a fatica, nei prodotti di consumo mediali.

A partire dal 2017 l’aggettivo woke (sveglio) viene inserito nel vocabolario della lingua inglese per far riferimento all’atteggiamento di chi “sta all’erta” di fronte alle ingiustizie sociali. Il termine viene coniato in seguito alle grandi manifestazioni del movimento Black Lives Matter divenendo la parola che sintetizza la visione del mondo di chi è consapevole di ogni genere di disuguaglianza. In Italia, questo atteggiamento viene in genere tradotto con l’espressione “politicamente corretto”, volendo sottolinearne una natura negativa data dall’eccesso di politiche ingiustamente puritane e causa di omologazione culturale nell’ambito del dibattito sulla Cancel Culture.

Questa mostra non intende prendere parte al dibattito, ma punta a sottolineare con forza l’importanza della rappresentazione e dell’inclusività in questo importante settore: quello dell’intrattenimento.

La cultura pop, infatti, ha vissuto anch’essa negli ultimi anni una grande rivoluzione in termini di prestigio sociale. Quei prodotti, da sempre classificati come “di serie b” e tenuti ben lontani dagli studi accademici, hanno subito una notevole rivalutazione venendone riconosciuto il valore culturale in quanto prodotti in grado di plasmare il sentire collettivo e meglio restituire la sensibilità di un’epoca: d’altronde non è nelle piccole cerchie di intellettuali che affondano le radici queste grandi mobilitazioni sociali.

Questa rivoluzione è stata possibile, in tempi recenti, anche grazie a serie tv come The Big Bang Theory, che dalla sua messa in onda nel 2007, stagione dopo stagione, è riuscita a trasformare la visione del nerd nella percezione comune facendone conoscere la fierezza anche alle persone estranee a quel mondo. Il nerd, dunque, non è più relegato a mera spalla dell’eroe, ma diventa eroe esso stesso. Così, negli ultimi anni, sempre più ragazzi rivendicano per sé stessi l’appartenenza a questa categoria con particolare vanto. Va da sé, in un tale scenario, quanta importanza i prodotti della cultura di massa possano rivestire nel fungere da motore per i cambi di paradigma in campo sociale.

D’altra parte, che la settima arte abbia saputo intercettare prima della politica le nuove sensibilità in materia di diritti apparve chiaro già nella Cerimonia degli Oscar del 1940, quando ad Hattie McDaniel venne impedito di ritirare il premio come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Mami in Via Col Vento (il primo nella storia del premio ad un’attrice afroamericana) a causa delle leggi Jim-Crow, che impedivano alle persone di colore di poter stare insieme ai bianchi, vietandole, di fatto, l’ingresso all’interno del Kodak Theatre la sera della premiazione.

Il Caso della McDaniel è utile per parlare di un’altra spinosa questione che ancora oggi anima i dibattiti: quello della rappresentazione stereotipata sul piccolo e sul grande schermo. Il personaggio di Mami sintetizza in sé il paradosso che affligge le minoranze: è possibile conquistare l’agognata statuetta d’oro (dovranno passare 40 anni perché Denzel Washington vinca il secondo) ma, allo stesso tempo, rappresentare un personaggio stereotipato e grottesco.

È negli anni ’80 che dal Nord America fanno capolinea anche in Europa gli studi culturali come i “gender studies” e i “disabilities studies”, che si pongono l’obbiettivo di raccontare le storie rimaste taciute poiché i protagonisti sono proprio coloro che nel corso della storia sono stati più esclusi dai luoghi di potere e di conseguenza dai luoghi dove la storia con la s maiuscola veniva fatta.

Tra tutte le categorie cosiddette “marginalizzate”, quella che sicuramente può ambire all’inglorioso podio è quella delle persone portatrici di disabilità.

Dal punto di vista della rappresentazione mediale sono molti i ruoli di personaggi resi celebri dai propri turbamenti psichici e dalle loro fragilità fisiche, ma fra questi purtroppo non sono molti quelli interpretati da attori realmente disabili.

Sempre facendo riferimento alla storia degli Oscar (dal cui palco sono più volte stati lanciati messaggi che andavano al di là del semplice riconoscimento artistico), pochi sono i premi andati a questa categoria di persone. Sono, invece, molte le interpretazioni di attori non realmente portatori di disabilità che, impegnati nel portare su schermo personaggi con fragilità psico-fisiche, sono riusciti a portare a casa il premio. Solo per citarne alcune: Daniel Day Lewis (il Mio Piede Sinistro), Al Pacino (Scent of a Woman), Tom Hanks (Forrest Gump) e Eddie Redmayne (La Teoria del Tutto).

Tutto ciò dimostra il fatto che spesso è proprio la restituzione della complessità umana che si tende a portare in scena e a premiare. Le motivazioni della preferenza verso questo tipo di ruoli è da attribuirsi principalmente allo studio profondo sul personaggio, la messa in scena di tic, movimenti specifici, l’assunzione per svariate ore di pose innaturali, la sottoposizione a lunghissime sedute di make-up, l’uso di scomode tute prostetiche al fine di modificare il proprio aspetto, ed infine, la modifica del tono di voce al fine di rendere la loro interpretazione davvero credibile.

Il primo vincitore veramente disabile del premio Oscar fu Harold Russell, che aveva perso le mani nel secondo conflitto mondiale e che nel 1946 vinse come miglior attore con il film i Migliori Anni della Nostra Vita, a cui seguì nel 1987 Marlee Matlin, attrice facente parte della comunità dei non udenti, vincendo come miglior attrice protagonista per il suo ruolo in Figli di un Dio Minore e che reciterà anche nella pellicola vincitrice del 2022 di ben tre statuette: CODA (acronimo per Children of Deaf Adults), remake del film francese la famiglia Bélier e vincitore nelle categorie miglior film, miglior sceneggiatura non originale e a Troy Kotsur come miglior attore protagonista. Nel 2023 è James Martin, attore con Sindrome di Down, ad impugnare la statuetta per l’interpretazione nel cortometraggio An Irish Goodbye.

Altri prodotti che hanno portato sul palco del Kodak Theatre storie di disabilità sono:

–         il documentario prodotto dagli Obama Crip Camp (2020): sul campo estivo che negli anni ’70 ospitava persone con disabilità.

–         Il cortometraggio Feelin Trough (2019) con protagonista un sordo-cieco.

–         The Sound Of Metal (2019): film sulla storia di un batterista che improvvisamente perde l’udito

(nel cast l’attrice Lauren Ridloff realmente parte della comunità sorda e interprete del recente Blockbuster Eternals nei panni della supereroina Makkari).

A partire dal 2024, entrerà in vigore il cosiddetto RAISE (acronimo per representation and inclusion standards): un film per essere incluso nella lista dei titoli in lizza dovrà rispettare almeno due tra 4 parametri individuati dall’Academy. Questi standard servono ad escludere, così, i film che non applichino criteri di inclusione alla produzione delle proprie pellicole. I criteri di inclusione riguardano le categorie marginalizzate (Donne, minoranze etniche, membri della comunità LGBTQ+, persone con disabilità ecc.) che devono essere presenti in determinate percentuali sia nell’equipe del compartimento tecnico sia nel cast e nella scelta delle tematiche da portare su schermo per poter concorrere in gara.

Nonostante non sia ancora entrato in vigore, questo standard ha già sortito l’effetto sperato, poiché la maggioranza delle produzioni si sono è già allineata ad esso in modo da arrivare preparati alla 94° cerimonia.

Seppur questi risultati siano giunti solo a seguito dell’utilizzo di sistemi coercitivi, ci auguriamo che questa diventi la spinta creativa utile al raggiungimento di una maggiore diversità nelle storie di cui fruiamo su schermo, nella speranza di riscoprire la diversità come valore e non come una limitazione.

Anche il mondo delle serie tv si sta muovendo verso orizzonti di inclusività. La nota piattaforma di streaming Netflix, che si rivolge principalmente ad un target giovanile e quindi più attento a queste tematiche, ormai da anni propone diversi titoli con protagonisti portatori di disabilità: ad esempio le recenti Sex Education lanciata per la prima volta nel 2019 ed attualmente in produzione (Isaac Goodwin il cui interprete è tetraplegico a causa di una grave lesione alla colonna vertebrale) e Atypical in onda dal 2017 al 2021 (Sam, il protagonismo è affetto da autismo).

In questa direzione sta andando anche Disney, che nella serie Peter Pan & Wendy, approdata il 28 aprile scorso sulla sua piattaforma streaming, ha scelto per interpretare il celebre bambino che non aveva voglia di crescere un attore con Sindrome di Down. La Disney non è comunque estranea alla rappresentazione delle fragilità e delle disabilità: Dory e Nemo rappresentano due tipi di fragilità fisica e mentale. Altri esempi meno recenti ma altrettanto celebri nel mondo dell’animazione sono Uncino e l’amica di Heidi, Clara.

Anche nella storia del fumetto americano ritroviamo molti esempi d’inclusione: il primo già a partire dal 1941, quando fece la sua prima apparizione Dottor Mid-Nite, eroe di casa DC comics che prima ancora del più celebre Daredevil, narra le avventure di un supereroe con cecità ed il primo in assoluto con una disabilità fisica. In casa Marvel, oltre al già citato Matt Murdock, possiamo considerare facenti parte di questa categoria gli X-Men in quanto la narrazione portata avanti è quella di tutta una categoria di persone che a causa della loro diversità (spesso e volentieri invalidante) viene perseguitata trovando rifugio nella Xavier High School, unico posto dove i mutanti non devono nascondere la loro vera natura. Il 29 novembre, approderà sulla piattaforma Disney+, la serie tv, che nasce come spin-off di Hawkeye, con protagonista l’eroina non-udente Echo.

Menzione d’onore abbiamo riservato anche alla Barbie di casa Mattel, che già nel 1997 aveva lanciato Becky, una versione dell’iconica bambola su sedia a rotelle, e che da quest’anno, ha incluso tra le sue fila anche una versione con trisomia 21, poiché siamo certe che l’identificazione che passa attraverso il gioco rivesta un ruolo decisivo nel cammino verso la realizzazione di una reale inclusione.

Nella nostra mostra abbiamo operato una selezione che non seguisse altri criteri se non quelli riconducibili al nostro gusto: abbiamo selezionato alcuni tra i personaggi di finzione che ritenevamo più memorabili, iconici e d’ispirazione creati fin qui con l’auspicio che in futuro ne vedremo molti ancora di nuovi…

Rebecca Bucci

Share this article

Recent posts

Popular categories

2 Commenti

  1. Premetto che quanto sto per scrivere potrebbe essere out of topic in quanto non parlo di una “vera” diversità tra persone ma, purtroppo, di una inesistente diversità, malauguratamente ritenuta tale, ancora, da troppi.
    Dopo aver letto nel post citato “Black Lives Matter”, ho ripensato al mio bravissimo maestro americano Larry Dinwuiddie che negli anni ’70 lavorava a Roma nel campo musicale, e mi insegnò a suonare il sax; soprattutto, divenimmo amici e, prima che ripartisse per New York negli anni ’80, mi insegnò tante atre cose che molti, purtroppo, ancora oggi non capiscono, a quanto sembra.
    Se lecito allego in un link, preso da youtube, un video di RAI UNO ove Larry suona con una nota pianista italiana:
    https://www.youtube.com/watch?v=GeikTf9NDzc
    Tutto ciò mi ha fatto venire in mente un bellissimo film che ho recentemente visto e che parla dell’amicizia nata tra un italo americano ed un geniale pianista nero che, nel ’62, lo assunse per essere assistito in un tour nel sud dell’America.
    Il film è un resoconto da parte del figlio Nick di Vallelunga, e racconta della nascita di un’amicizia durata fino alla morte, avvenuta a pochi mesi di distanza, tra i due protagonisti della stessa.
    Il progetto di raccontare la storia nacque negli anni ’80 e, discutendone col padre e con Don Shirley, il pianista, decisero che il film si sarebbe potuto realizzare solo dopo la morte di Don Shirley, avvenuta nel 2013.
    Quindi nel 2017 Nick contattò Brian Curry per la sceneggiatura che eseguirono insieme, e Peter Farrelly e, nel 2017, Viggo Mortensen e Mahershala Ali accettarono di interpretare il film.
    Se lecito allego, preso da youtube, il link del trailer e invito quanti non lo conoscano a vedere la bellissima storia raccontata mirabilmente in un film emozionante e bellissimo.
    https://www.youtube.com/watch?v=0JYg_euJs3E
    Su youtube si possono trovare numerosi video del vero Don Shirley che suona.
    Giuseppe.

  2. Da rimbambito, quale a volte sono, dopo tanto scrivere, tra cui:
    “… Tutto ciò mi ha fatto venire in mente un bellissimo film che ho recentemente visto e che parla dell’amicizia nata tra un italo americano ed un geniale ricco pianista nero che, nel ’62, lo assunse per essere assistito in un tour nel sud dell’America…”,
    ho dimenticato di scrivere il titolo del film, che è “Greenbook”.
    Greenbook era una guida sulla quale erano segnati, immagino soprattutto negli stati del sud America, gli alberghi ove, per la segregazione all’epoca ancora vigente in alcuni stati americani, i neri potevano alloggiare.
    Eravamo nel ’62.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Recent comments

Franco Masini on Guerra e pace.
Mariacristina Pettorini Betti on Enrico Giovannetti
Mariacristina Pettorini Betti on L’Italia ripudia la guerra. O no?
Mariacristina Pettorini Betti on Il popolo si è espresso e ha sempre ragione.
Articolo precedente
Articolo successivo