Le sinistre: il salario minimo riguarda il 20% dei lavoratori: è il fallimento del sindacalismo e della contrattazione?

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Torniamo a parlare di salario minimo visto che l’autunno sarà il momento in cui il tema tornerà a galla dopo che il CNEL avrà rilasciato il suo parere e la sua proposta in merito.

La discussione è fortemente ideologizzata e quindi piuttosto difficile da condurre ed è ancora più difficile trovare dati affidabili e non faziosi.

Facciamo una premessa per focalizzare il problema: come si forma un giusto prezzo per il lavoro? E come è possibile garantire che la contrattazione tra le parti non veda una disparità di forza tale da garantire ad una delle due un vantaggio indebito?

Al di là della risposta tecnica (che darà in un suo articolo il prof. Mariti), questo è sempre stato il terreno del sindacato. Semplificando molto, la sua ragione di essere è quella di coalizzare i lavoratori di un certo settore/azienda per dar loro una forza contrattuale (la forza del numero e dello sciopero) nei tavoli di definizione di regole e stipendi tramite il confronto tra pari con la controparte datoriale che è forte per definizione.

L’estensione di questo modello di contrattazione porta alla contrattazione di settore in cui a confrontarsi non sono più le singole rappresentanze delle singole realtà ma i sindacati nazionali e le associazioni datoriali per giungere ad un contratto di settore valido per tutti, anche per chi non partecipa direttamente alla contrattazione.

Questo modello vorrebbe garantire, tramite la scala nazionale e quindi la discussione astratta dalle singole realtà, un rapporto di forza equilibrato tra le parti e pertanto la formazione di un prezzo secondo le dinamiche tipiche di un mercato sano. Quindi un prezzo che sia equo per natura. Al quale poi le singole aziende possono aggiungere miglioramenti in cambio di maggiore produttività ma non scendere sotto a tali standard.

Il punto è che i contratti nazionali così siglati non forniscono solo un importo orario ma tutta una serie di obblighi, diritti, tutele, ecc. che sono molto estesi e contano molto di più del valore economico (certamente fondamentale) della singola ora di lavoro. E normano sia il minimo che tutti i livelli successivi fino ai livelli dirigenziali. Quindi anche le prestazioni di maggior valore.

Normano, cioè, tanto. Tantissimo. Forse troppo. Ma certamente sono uno strumento sofisticato di contrattazione per il mondo del lavoro.

Ora il dibattito sul salario minimo è deflagrato come una bomba ma non ha evidenziato un elemento che è implicito. Ossia che porre il tema del salario minimo universale anche nei regimi normati da una contrattazione nazionale significa dichiarare che il modello delle relazioni tra imprese e sindacato ha fallito. E la certificazione di questo fallimento è il tanto sbandierato motivo per cui sarebbe necessario il ricorso al salario minimo: esisterebbe una fascia della popolazione che non è adeguatamente tutelata da questo sistema. E non è, stando a quanto dichiarano i leader della sinistra, una piccola fascia: loro parlano di 3 – 4 milioni di lavoratori pari a 15-20% del totale.

Quindi il sistema della contrattazione avrebbe lasciato indietro 1 lavoratore su 5.

Premetto che non condivido né il dato né il giudizio sull’attuale sistema.

Non condivido il dato perché, in realtà, confonde il tema del working poor con i lavori sottopagati: hanno indubbiamente una parte di sovrapposizione ma hanno anche ragioni, problemi e possibili soluzioni diverse. Senza affrontare il tema basta far presente che un lavoratore part time, sebbene percepisca più dei fatidici 9€/ora è un working poor perché con mezzo stipendio non fai una vita normale. Inoltre quel numero incorpora anche le persone che stanno affrontando una fase di formazione-lavoro come i tirocini e/o apprendistati. Che sono fasi temporanee in cui il basso stipendio è legato alla bassa produttività di chi deve imparare un mestiere. Situazioni normate dalla legge e che sono utili a creare posti stabili. E un’analisi più accurata ridimensiona il numero delle persone che sono impattate dall’eventuale determinazione di un salario minimo di legge.

Per quanto riguarda il giudizio sul sistema attuale, ritengo che ci sia molto da riformare. Ma che, con tutti i suoi difetti, sia un sistema che ben si attaglia a tutto il nostro impianto normativo e organizzativo.

Il nostro sistema giuridico, infatti, prevede quasi per tutti gli aspetti della nostra vita (civile e lavorativa) delle norme generali da cui derivano gran parte dei nostri obblighi reciproci. Il Codice Civile è questo insieme di regole valide «erga omnes» a cui i contratti nazionali fanno da naturale prosecuzione.

Ma se condivido l’impostazione del contratto nazionale, ritengo che sia vero che la contrattazione non abbia saputo rispondere efficacemente alle sfide di questi ultimi anni. E, da imprenditore e quindi di parte, sottolineo che abbia fallito a tutelare il sistema tutto (non solo una parte) in anni di cambiamenti rapidi e furenti non garantendo la flessibilità che sarebbe servita alle aziende ma neppure tutelando i lavoratori nella parte economica.

Sono anni che siamo il fanalino di coda della produttività economica europea. E sono anni che siamo il fanalino di coda delle dinamiche economiche dei lavoratori. Non serve di essere economisti per collegare tra di loro le due cose. Produttività e stipendi non possono essere separati. Ma è bene evidenziare che, quando le associazioni datoriali e quelle sindacali prediligono lo status quo al cambiamento, il sistema fallisce.

E che, se il sindacato è più preoccupato delle dinamiche pensionistiche che del rinnovo dei contratti scaduti, ne consegue che i lavoratori sono stati abbandonati.

Per questi motivi ritengo che parlare di salario minimo come di una soluzione dei problemi sia, Per i sindacati, un errore. Grave.

Che questa battaglia, per i lavoratori, sia riduttiva.

Che la soluzione sia un sistema di relazioni sindacali totalmente rinnovato e non il panicello caldo del valore, oltretutto arbitrario, di 9€/ora.

Ma mi chiedo, onestamente, se queste rappresentanze sindacali (ma anche datoriali) abbiano la cultura e la capacità di rinnovare un tale, complesso, sistema. O se, piuttosto, il loro fallimento sia definitivo.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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