Le radici della politica italiana –La costituzione, Togliatti e il filo del dialogo – III Parte (’46 – ’80)

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(Segue da:

Le radici della politica italiana – le origini dei Bianchi e dei Rossi e lo scontro tra le due culture – I Parte (’46 – ’80)

Le radici della politica italiana – I Rossi tra opzione democratica e opzione rivoluzionaria: Pannella e la cultura della sinistra moderna – II Parte (’46 – ’80))

Abbiamo visto le origini dei mondi politici di Rossi e Bianchi e come quegli anni furono densi di scelte importanti che ne definirono i profili e i relativi destini. Abbiamo anche cercato di spiegare come i Bianchi persero la loro battaglia più importante, con conseguenze ancora oggi ben visibili nella cultura mainstream orientata dai valori di sinistra. E abbiamo anche visto come la sinistra italiana si sia tenuta in equilibrio tra democrazia e violenza in modo complesso e fragile.

La sinistra che conosciamo oggi è infatti più figlia delle minoranze (radicali e componente cattolica comunista) di allora che degli ideali del PCI. E, si sa, anche il mondo dei Bianchi non ha prodotto una discendenza politica vera in Italia (a differenza di quanto avvenuto in altri paesi europei). Ma di questo ci occuperemo in un prossimo articolo.

I Bianchi e i Rossi erano due mondi opposti e accanitamente contrapposti. Opposti nella visione del futuro. Opposti nella contrapposizione internazionale con i Bianchi legati all’Ovest delle carte geografiche e i Rossi all’Est. Perché a quei tempi, a differenza di oggi, l’Italia era terra di confine. Appena oltre, sullo stesso meridiano, c’erano la Yugoslavia, la Cecoslovacchia, la Germania Est. Luoghi in cui il comunismo sovietico era egemone. Luoghi da cui i Rossi erano naturalmente attirati come da una forza magnetica. E luoghi per i quali i Bianchi, anti-simmetricamente, sentivano una altrettanto naturale repulsione. Li divideva, quindi, quasi tutto.

Quasi.

Il primo dopoguerra è segnato da due fatti che dimostrano che, dopotutto, c’è stata una forte volontà di tenere insieme il paese e di evitare una ricaduta nella guerra, questa volta, civile.

Il primo di questi fatti è la Costituente.

Se c’è un emblema che può essere indicativo di un mondo complesso come quello e della volontà di tenere unito il paese, è la Costituzione. Essa fu il primo e più importante risultato di un dialogo, spesso sotterraneo, talvolta scoperto, che fu tenuto aperto tra Bianchi e Rossi. In una Italia in bilico tra Est e Ovest, fu l’Assemblea Costituente che diede la sensazione che si potesse tenere insieme il paese su delle regole condivise. Almeno fino ad una possibile rivoluzione rossa…

La Costituzione fu la mediazione di due visioni differenti e opposte. Il contesto in cui si trovò (forse persino si scoprì che esisteva) un insieme di valori condivisi dai due mondi. Un punto di mediazione che si raggiunse anche con qualche sofferenza ma che entrambe le parti rivendicarono per tutti gli anni successivi come fondante per la propria visione del mondo. Parliamo naturalmente della prima parte della Costituzione, quella dei valori. In cui i valori sociali, il lavoro e la libertà furono il collante che permise di istituire un dialogo tra Rossi e Bianchi che fu fondamentale per l’evoluzione del paese.

Nella prima parte, infatti, troviamo un singolare mix di valori e impostazioni che tradiscono i differenti approcci, anche ideologici, che i padri costituenti avevano: in particolare valori comunisti e valori popolari (cattolici). E, per certi versi e per significativa assenza, anche quelli evidentemente minoritari nel tempo: quelli più tradizionalmente liberisti. Se, infatti, esisteva una base comune ai valori di comunisti e cattolici, era un approccio alla visione dello stato abbastanza assistenziale, seppure con marcate differenze. Una idea di stato che tutela i cittadini piuttosto che la visione (anglosassone) di stato come mero gestore di servizi comuni.

Fu, però, anche il luogo, in particolare nella seconda parte della Costituzione, della mediazione, dei contrappesi, della prudenza.

La preoccupazione del potenziale scivolamento a sinistra del paese e la memoria della facilità con cui Mussolini poté impadronirsi dell’Italia, portò i Bianchi a cercare una forma burocratica volutamente lenta. Ricca di strumenti pensati per bloccare i cambiamenti (istituzionali e costituzionali) e contrappesi massicci volti a contenere l’azione di governo più che per favorirla. Lo scopo era impedire colpi di mano in caso di una vittoria politica della sinistra. O dell’affermarsi di forze nostalgiche del fascismo. O di nostalgici della monarchia. O di possibili ingerenze di altri paesi (ipotesi non poi tanto peregrina come mostrarono eventi degli anni successivi). Un sacco di pessimi pensieri su scenari nefasti che hanno condizionato pesantemente l’azione costituente. Del resto, in questo periodo lo stato italiano era tutt’altro che un fatto consolidato e i rischi erano molti e, soprattutto, molto concreti.

La sinistra, dal conto suo, vedendo o temendo di essere comunque in svantaggio elettorale e consapevole degli altri rischi sopra elencati, accolse volentieri questi contrappesi che le consentivano di massimizzare il proprio peso politico e istituzionale e di poter contrattare con il governo parte dello spazio istituzionale (RAI, Partecipazioni Pubbliche, scuola…).

Il risultato fu un sistema scientemente e intrinsecamente pensato per essere complesso e lento, facilmente impantanabile, ma anche molto difficile da cambiare repentinamente e reso stabile e funzionante solo dalla necessità di portare l’Italia fuori dalle difficoltà economiche del dopoguerra. E su questo piano funzionò oggettivamente molto bene per molti anni, anche se, con gli occhi di oggi, le istituzioni che ci conducono hanno molti problemi.

Accanto alla Costituzione, ciò che meglio illustra sia la criticità del periodo che la fondamentale scelta democratica di una parte (importante ma non totalitaria) della dirigenza dei Rossi fu l’attentato a Palmiro Togliatti.

Era il 14 luglio del ’48 e Palmiro Togliatti era segretario del Partito Comunista Italiano. Erano le 11.45 quando, all’uscita da Montecitorio uno studente siciliano, Antonio Pallante, gli spara tre colpi di pistola.

Antonio Pallante era un militante del Blocco Democratico Liberal Qualunquista, scissione del Fronte dell’Uomo Qualunque (una specie, fatte le dovute differenze, di M5S di allora che era parte parte del Blocco Nazionale). Erano passate, da tre mesi appena, le prime elezioni della storia repubblicana che erano state vinte dalla DC contro Comunisti e Socialisti e che aveva visto la prima conquistare la maggioranza assoluta in entrambi i rami del parlamento con il 48% dei voti contro il 30% del Fronte Democratico Popolare (da cui poi verrà il PCI nel ’47) e il 7% di Unità Socialista (il resto diviso tra repubblicani, blocco nazionale, monarchici e il neonato movimento sociale).

Già nel pomeriggio di quello stesso giorno L’Unità usciva con una edizione straordinaria sull’attentato. Le condizioni di Togliatti apparvero da subito disperate: aveva perso molto sangue ed era stato colpito alla nuca. La sinistra è in subbuglio e i sindacati proclamano lo sciopero generale.

Ed è subito frattura anche dell’unità sindacale con la nascita (a seguito di questa chiamata allo sciopero e del reale significato che ha: preparazione della rivoluzione) di CISL (cattolica) che si separa dalla CGIL.

In tutto il paese ci sono scioperi, proteste, sommosse. Molti militanti comunisti le considerarono l’occasione di avviare la rivoluzione rossa in Italia. Erano passati solo tre anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e moltissime persone possedevano ancora molte delle armi che erano state usate durante il conflitto e nella lotta partigiana. Ci furono scontri con la polizia, morti, feriti e migliaia di arresti. Anche l’esercito fu mobilitato per gestire la situazione. Nel solo giorno del 14 luglio la manifestazione in tutta Italia (ma particolarmente a Torino, Genova, Livorno, Roma, Napoli e Taranto) portarono a 14 morti e centinaia di feriti.

Fortunatamente le condizioni di Togliatti non erano così gravi come era apparso in un primo momento: il colpo alla nuca non aveva sfondato il cranio (probabilmente per la scarsa qualità delle munizioni di Pallante) né aveva portato a danni al cervello e l’intervento chirurgico gli salvò la vita. Appena cosciente, Togliatti si adoperò per sedare gli animi imponendo ai suoi di “stare calmi” e “non fare pazzie”. Nei giorni successivi, nonostante le indicazioni a freddare gli animi, si contarono ulteriori 16 morti e 600 feriti. E per molti giorni si visse in bilico tra ritorno alla normalità e guerra civile.

È indubbio che fu la decisione e la determinazione di Palmiro Togliatti (quasi da solo in questo) a fermare una nascente rivoluzione. E questa scelta dimostrò che esisteva una parte del PCI fermamente convinta che la strada giusta fosse quella democratica e non quella rivoluzionaria. Ma è altrettanto indubbio che esistevano dei gruppi, non trascurabili, che consideravano la rivoluzione inevitabile. Gruppi, questi, che mantennero la loro identità e impostazione fino alla fine degli anni ’70 e che alimentarono e coprirono l’azione delle Brigate Rosse. Fu solo dopo l’omicidio Moro che queste fazioni vennero definitivamente isolate politicamente dalla sinistra e la fase del rischio rivoluzionario finì.

Il dialogo tra le parti, fino agli anni ’80 fu, così, sempre tenuto al confine tra rivoluzione e istituzioni. Un equilibrio difficile, instabile e, a tratti pericolosamente in bilico.

Questa polarizzazione, e i concretissimi rischi che l’ascesa del PCI al potere avrebbe comportato, costituiscono lo scudo che garantì al pentapartito il governo ininterrotto del paese per quasi 50 anni (dal ’48 al ’92). Una tale prolungata esposizione al potere, senza alternanza, creò il contesto ideale per l’affermarsi anche del peggio della politica: corruzione, cinismo e (anche se non si chiamava così) populismo.

E questo è il contenuto del prossimo articolo…

(Segue:

Le radici della politica italiana – la crisi del sistema politico nell’Italia “da bere” – IV Parte (’80 – ’92))

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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