In Italia esiste un pensiero liberale?

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In Italia, a partire dal dopoguerra, si sono scontrati due pensieri dominanti: quello del socialismo e quello democristiano.

Il primo nasceva come reazione ai limiti del primo liberismo economico e alle trasformazioni della società industriale. Per questo motivo aveva, e tuttora conserva, tratti fortemente illiberali e anticapitalistici. Anche anticasta ma spinta fino al punto di considerare un danno la stessa affermazione del soggetto e la sua crescita. Per conciliare questo atteggiamento con la gestione della cosa pubblica, fece di quest’ultima una specie di religione laica con lo «stato» elevato ad entità sacra e potere assoluto che determina il bene e il male dell’individuo.

Una cultura profondamente illiberale perché poggiata su una specie di pessimismo antropologico (alquanto schizofrenico) che tuttora vede nella persona un soggetto prevalentemente positivo ma che viene «traviato» da un modello sociale che lo porta a forme di organizzazione e azione disfunzionali e predatorie dove soggetti favoriti dal censo e dai soldi possono (e lo fanno) predare il prossimo. Una visione che caratterizza la conseguente scelta di negare il diritto di possedere e porta a vedere il capitale come lo strumento dell’azione predatoria, il guadagno come torto alla massa, la massa come il soggetto debole predato  dalle élite, il mercato come il campo truccato che consente la frode dei diritti delle predette masse.

L’altra cultura, quella democristiana, affonda in una diversa antropologia la sua formazione. Per il cristianesimo, l’uomo è intrinsecamente un insieme di bene e di male, capace di contemplare Dio, da cui origina ogni bene, e di rifiutarlo e scegliere il male. È quindi un soggetto che può scegliere liberamente sia il bene che il male e che quindi agisce in entrambe le direzioni. Conseguentemente anche le sue organizzazioni, cioè lo stato e tutti i relativi corpi intermedi, sono caratterizzate dalla duplice tensione tra bene e male. Lo stato, quindi, non è salvifico (come lo vede il socialismo) ma neppure la società è vista come un contesto che è negativo per sua stessa natura.

La cultura democristiana è quindi più legata ai concetti di liberismo che di socialismo seppure ad un liberismo ponderato e moderato dalla religione cristiana che vede nell’altro il fine dell’azione e nella società il tentativo, sempre umanamente fragile e imperfetto, e quindi sempre da migliorare e manutenere, di creare il perfetto mondo dei figli di Dio.

Al giorno d’oggi il liberismo senza controlli è un ideale che nessuno appoggia più in nessun posto al mondo. In questo senso possiamo dire che quella ideologia ha perso il suo confronto con la storia. Mentre invece nazioni che si definiscono comuniste ce ne sono e sono grandi e importanti e illiberali. Nessuna di queste, coerentemente con la loro radice culturale, è un contesto dove le persone godono di libertà personali. Né dove l’economia ha prodotto soggetti che si siano mossi nei mercati internazionali con lo stesso dinamismo di quelli cosiddetti occidentali.

Parziale eccezione all’ultima affermazione è la Cina che ha tentato un percorso di parziale libertà di mercato mantenendo inalterato l’impianto statalista e dirigista comprensivo della negazione delle libertà personali. E anche della sostanziale condanna morale della ricchezza che i pochi capitalisti di successo, che il successo lo devono alla vicinanza dello stato più che al loro dinamismo, hanno accumulato.

La cultura occidentale è quindi il risultato della mediazione tra la cultura liberista e quella cristiana. È in questo contesto che si forma l’idea di uno stato che deve equilibrare l’imprescindibile diritto soggettivo alla libertà e alla libera iniziativa, compreso il diritto alla proprietà privata, con la necessità di farsi carico anche di poveri ed emarginati.

L’equilibrio tra soggetto e società, tra possesso e bene comune, tra autodeterminazione e pianificazione pubblica, tra guadagno e distribuzione sono il collante del sistema democratico del modello occidentale. Che ha trovato vari e diversi modi di strutturarsi: negli USA e nelle società che nascono dal modello britannico più liberista e con uno stato più leggero; nel modello europeo più strutturato e con un ruolo più dirigista. Ma fondamentalmente con lo stesso assetto valoriale e culturale.

Almeno fino a tempi recenti.

Ultimamente hanno preso piede maggiormente, soprattutto in Italia ma un po’ anche negli altri paesi occidentali, modelli culturali assai meno sofisticati. Sono i movimenti populisti che hanno spopolato (mi si perdoni il gioco di parole) nella politica di qua e di là dell’oceano. Quelli che fanno dell’irresponsabilità e della banalità l’asse portante della loro proposta.

Che piuttosto che cercare di spiegare concetti complessi in modo semplice per creare consenso su soluzioni possibili e ragionevoli, cercano più banalmente risposte semplici a problemi complessi per creare consenso attorno alla scalata al potere.

È un percorso che nasce da lontano: il primo proto-populista fu quel Bettino Craxi che (assieme ad altri anche della DC) diede all’Italia un decennio di «ricchi premi e cotillon» fatto di pensioni facili, riconoscimenti di privilegi a gruppi e organizzazioni, spesa pubblica e assunzioni. Un ricco bottino che gli fruttò il disprezzo delle folle e il lancio delle monetine che con tanta larghezza aveva distribuito a tanti.

Anche oggi il populismo ha prodotto lo stesso risultato: spesa incontrollata in cambio di un breve consenso sociale, soluzioni sbagliate per problemi complessi che diventano cronici. E ha, oggi come allora, penetrato con facilità tutte le parti politiche sia a destra che a sinistra.

Oggi c’è un problema di equilibrio politico che si è rotto: la sinistra non ha il coraggio di riconoscersi pienamente in una cultura pienamente socialista (e quindi illiberale) ma non riesce a produrre una nuova cultura chiaramente identificabile, altalenando tra cattolicesimo di sinistra e anticattolicesimo barricadero. Mentre nel centrodestra convivono anime populiste con minoritari scampoli di cultura democristiana, ridotta però più alla cultura della mediazione dei «due forni» più che a quella della «mediazione culturale» tra idealità e concretezza. E su cui è improvvisamente emersa con forza la posizione di FdI che non appartiene a nessuna di queste famiglie ma piuttosto ad una forma di centralismo democratico di ispirazione cristiana. Ciò che davvero manca ad entrambi dli schieramenti è un’anima sinceramente liberale, sebbene in chiave moderna e quindi temperata.

E di questa mancanza è piena la cronaca degli ultimi anni.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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1 commento

  1. In Italia il Liberalismo vero e non quello di cui tutti i partiti ne rivendicano un pezzetto non esiste. Liberali o lo si è o non lo si è! Al centro del Liberalismo c’è sempre la libertà dell’uomo con un occhio però aperto sul bene comune e sui principi di solidarietà. Non si può essere liberali a corrente alternata e quando fa comodo. L’Onorevole Antonio Martino ebbe a dire:
    “Essere liberale oggi significa saper essere conservatore, quando si tratta di difendere libertà già acquisite, e radicale, quando si tratta di conquistare spazi di libertà ancora negati. Reazionario per recuperare libertà che sono andate smarrite, rivoluzionario quando la conquista della libertà non lascia spazio ad altrettante alternative. E progressista sempre, perché senza libertà non c’è progresso.”

    Il problema è che “liberale” è un mantello di credibilità che indossano persone indegne di farlo in tutti i partiti. Da li si deve ricominciare traccinda i limiti esatti del significato della parola Liberale.

    Cristoforo Cristofani

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