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Protagonisti del passato: Rodolfo Del Beccaro (aggiornato)

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Del Beccaro in una foto di Alcide

Rodolfo Del Beccaro e il giornale La Nazione nella vita lucchese della seconda metà del Novecento

Il ventesimo anniversario della scomparsa di Rodolfo Del Beccaro (21/7/2003), capo della redazione di Lucca de La Nazione per decenni, nella seconda metà del secolo scorso,  è la giusta occasione per ricordare una figura esemplare di correttezza ed equilibrio professionale. I testi che seguono (risalgono ad alcuni dopo) non sono mai stati pubblicati e, nonostante il tempo intercorso, molti sicuramente ricorderanno i nomi dei colleghi autori:

  • Mario Rocchi, critico d’arte, che ha conosciuto Del Beccaro durante la sua attività iniziale a “Il Nuovo Corriere”;
  • Giorgio Batini, prestigiosa firma de La Nazione, inviato per anni e poi autore di numerose e interessanti libri riguardanti il territorio con relative curiosità e tradizioni toscane: ha visto all’opera Del Beccaro dal 1956 a La Spezia e poi a Lucca dal 1963 al 1986 (quando Rodolfo andò in pensione);
  • Antonio Lovascio, già vicedirettore del giornale fiorentino, che ha lavorato per svariati mesi gomito a gomito presso la sede di piazza del Giglio.

Nel contesto sociale dell’epoca, in cui Lucca era considerata un’oasi di tranquillità, Del Beccaro guidava la redazione con la sua impronta: uno stile ben preciso, istituzionale e cordialissimo, ma sempre fermo e senza complicità, autonomo anche dal potere politico. E all’interno era riuscito a creare un clima di amicizia e notevole coesione, con tanti collaboratori coinvolti, compresi i fotografi Alcide e Placido – e i risultati si vedevano: Lucca era uno dei fiori all’occhiello del giornale e grande fu la soddisfazione quando, un giorno di fine anni Settanta, da Firenze comunicarono che era stata superata la soglia delle 6 mila copie vendute. Rodolfo Del Beccaro, in definitiva, ha attraversato con dedizione una stagione che gli enti lucchesi dovrebbero ancora valorizzare, ricordando adeguatamente figure come la sua.

Mario RocchiUNA STORIA UMANA E PROFESSIONALE

I PRIMI TEMPI. Era una stradetta buia a quel tempo via del Battistero. Aveva la patina della strada rionale e se qualche rigattiere o antiquario cercava di nobilitarla, lo sforzo era vano. Solo sul fondo, dove era l’atelier di Bruno Vangelisti, si riusciva a respirare un’atmosfera diversa, più snob certamente e anche più acculturata. Lì, in quelle ampie stanze un po’ tetre, c’erano già passati attori, attrici e registi. E il cinema era un’attrazione formidabile per tutti noi; figurarsi gli attori in carne e ossa! Bene, all’inizio di via del Battistero, sulla destra, a piano terra, c’era una stanzetta dove Rodolfo Del Beccaro, tutto da solo e appena aiutato per il disbrigo di certe pratiche dagli amici Silvano Farinelli e Beppino Menchini, lavorava tutto il giorno per riempire il foglio di cronaca de “Il Nuovo Corriere”, un giornale che per la pagina culturale, la cosiddetta terza pagina oggi scomparsa, era da considerarsi uno dei migliori d’Italia. Romano Bilenchi, intellettuale e scrittore, lo dirigeva infondendo ad esso il succo culturale che lo faceva distinguere.

Una stanza e basta: la cronaca di Lucca, Rodolfo, che amichevolmente tutti chiamavamo “Foffo”, la formava lì. Essa doveva contenere quello che avveniva in una città che risentiva sempre degli strascichi di un dopoguerra duro quasi quanto la guerra. Perché se non c’erano come ora continui incidenti stradali, se non c’erano scippi, furti di automobili, uccisioni insensate di familiari e figli, tutte cose venute dopo per l’alienazione provocata dalla corsa al futile benessere, per il sottile veleno del danaro inteso come bene assoluto, per la patologia del consumismo, c’era la vita che mutava, c’era la voglia del cambiamento, c’era la nascita di una idea politica, il desiderio della gente di scoprire cose nuove  e viverle con intensità. Quindi Rodolfo Del Beccaro, chiuso in quella stanza davanti ad una vecchia macchina da scrivere da ufficio, doveva raccogliere non solo i fatti che accadevano, ma anche gli umori, i desideri, la volontà della gente di Lucca, una città in genere un po’ dormiente che quindi bisognava risvegliare con appassionate iniziative.

 In quella stanza io andavo da ragazzetto a pagare la tessera del Circolo del Cinema che, oltre al botteghino della sala di proiezione, poteva essere sottoscritta anche lì, alla redazione del Nuovo Corriere. Quelle furono le prime volte che vidi e conobbi Foffo. Un tipo assai gioviale con il quale riuscivo a scambiare qualche parola anche di cinema. Lui ne era appassionato ed aveva accettato quel piccolo compito delle preiscrizioni al circolo volentieri, anche per soddisfare i cultori di cinema e non solo, come Carlo Barsotti o Francesco Giovannini, amici suoi e anche del fratello Felice intellettuale di livello, professore alla Sorbona e ideatore e direttore della “Rivista Lucchese”, una rassegna periodica che accoglieva articoli dei più importanti scrittori, poeti e intellettuali italiani del momento.

Quelle erano le redazioni del tempo. A volte anche stanze più piccole come quella de “Il Tirreno”, all’inizio di via Vittorio Emanuele, dove Dino Grilli svolse per una vita intera il suo preziosissimo lavoro di giornalista, o quella più grande di piazza Cittadella dove svolgeva il suo lavoro Beppe Bianchi per “Il Giornale del Mattino”, un quotidiano di corrente governativa che chiuse i battenti qualche anno dopo. Queste redazioni erano fatte di un tavolo, di una macchina da scrivere posta su di un vecchio tavolinetto, di un telefono nero, di qualche sedia, di penne e fogli bianchi e buste del Fuori Sacco. Perché gli articoli che venivano scritti in maniera  che occupassero tutto lo spazio della pagina o delle pagine, venivano posti in una busta e portati all’ora apposita al pullman della Lazzi e lasciati fuori del sacco della posta (per questo la denominazione Fuori Sacco) perché, appena arrivato a destinazione, nel caso nostro, a Firenze, un fattorino avrebbe ritirato immediatamente il materiale giornalistico e l’avrebbe portato alla redazione centrale per la stampa. Se non era il Del Beccaro stesso a portarlo, era qualche altro aiutante o collaboratore, a volte anche l’altro suo fratello, Boris, ottimo corrispondente di giornali sportivi. Si trattava, se confrontato a quello di oggi, di un lavoro artigianale e di esso aveva tutti i pregi compresa l’umanizzazione di ogni atto.

Diventammo amici. Spesso lo andavo a trovare e nei momenti di calma, si parlava di tante cose: di cinema, di arte, di cultura in generale, di calcio e dei fatti di cronaca nera. Mi ricordava ad esempio quando aveva seguito tutta la vicenda della Banda Fabbri, un’associazione a delinquere che nel dopoguerra fece rapine e delitti fino a che tutti i componenti non furono smascherati e condannati. Mi raccontava del lungo processo a cui anch’io, sia pure giovanissimo, mi ero appassionato. Ricordo ancora oggi la lunga radiocronaca che fu fatta dalla radio nazionale (a quel tempo esisteva solo una stazione radiofonica Rai) per seguire le ultime fasi del processo fino alla sentenza. Una notte in bianco feci per sentire le arringhe dei difensori e il giudizio finale che condannava a morte i due principali imputati, Fabbri e Baccetti (esisteva ancora la legge marziale), poi graziati con il carcere a vita, e le numerose condanne degli altri componenti, tutti ragazzi lucchesi che conoscevamo, che incontravamo ogni giorno, che andavamo a veder giocare a biliardo al Caffè Savoia, quello di angolo con via Vittorio Emanuele, lì, a due passi da piazza Grande. Mi raccontava che il giorno dell’arresto, il Baccetti stava giocando a biliardo proprio in quel locale quando gli si avvicinò un amico che gli mormorò qualcosa all’orecchio. Lui disse interrompendo il gioco e posando la stecca sul biliardo: scusate, vado un momento al gabinetto (non si diceva in bagno o alla toilette come si usa ora), e non si fece più vedere. Avuta la soffiata che la polizia lo cercava, aveva tentato di fuggire ma non ci riuscì.

Bene, io me ne stavo a sentire tutto, assetato di notizie anche perché mi svelavano particolari di una storia che, bene o male, avevo vissuto attraverso quello che avevo letto sul giornale che mio padre la sera portava a casa. Lui, Foffo, aveva seguito tutta la vicenda, aveva descritto con meticolosità l’assassinio di due industriali sull’autostrada che, a quel tempo, era una fettuccia malandata di cemento, e quello ancora più atroce di Anchiano, dove furono uccisi tre industriali ed i corpi nascosti in una grotta. Erano cronache appassionate e appassionanti che ci facevano rivivere momenti tragici di un dopoguerra carico di speranze ma anche di tragedie causate dalla miseria che la guerra stessa aveva generato.

Ma con Rodolfo Del  Beccaro, che aveva addirittura seguito da ragazzino come cronista del giornale “Il Tifone” le vicende della Lucchese quando militava in serie A, si parlava anche della nuova squadra di calcio cittadina che approdò nuovamente nella prima serie nazionale ai tempi del grande Torino perito nella tragedia di Superga, un lutto per tutta la nazione. Il giorno dopo la partita, era tutto un parlare di come era andata la squadra, di come si erano comportati i singoli giocatori. Anche lì Foffo non eccedeva mai nell’entusiasmo e nel biasimo, dimostrando sempre quella equidistanza che era già saggezza. Semmai, con il suo fare ironico, raccontava di episodi divertenti sui tifosi e su personaggi strani che formavano il contorno folkloristico del calcio. Non mi ricordo con esattezza, ma mi sembra che fu proprio Foffo a raccontarmi dei tifosi piazzaioli, cioè quelli che abitavano in piazza dell’Anfiteatro, che andavano alla partita non con bastoni, ma con degli stoccafissi in mano, per difendersi da eventuali attacchi dei tifosi avversari. Comunque era il tempo in cui si poteva tranquillamente stare in tribuna, ma anche in gradinata (di curve ne esisteva solo una piccolissima a est), mescolati fra i tifosi avversari. Scoppiava qualche tafferuglio ma niente di grave. Che non ci fossero tanti pericoli si vedeva dalle forze di polizia messe in campo, veramente esigue. Si rise tanto insieme anche quando la Lucchese con un quattro a zero gliele suonò bene alla Fiorentina; persino i vigili urbani che, ai crocicchi, dirigevano il traffico sopra quelle specie di alte pedane, indicavano la direzione alle macchine fiorentine con la mano aperta con sole quattro dita per ricordare le quattro reti subite.

La redazione dunque era non solo un luogo di lavoro, ma anche un ritrovo in cui Rodolfo Del Beccaro faceva da anfitrione. Fu un piacere e dispiacere quando, nel 1956, lasciò Lucca per andare a dirigere la redazione de “La Nazione” a La Spezia. Un giornalista navigato e con molteplice esperienza come lui, fu un bell’acquisto per il giornale fiorentino e per la redazione spezzina. Ma fu un grande vuoto per tutti noi che perdevamo un contatto giornaliero con un amico fraterno. Ma come aveva l’occasione, a parte le telefonate, faceva una scappata nella sua città mai dimenticata. Mi ricordo di una volta che, per Santa Croce, comprò alcune campane di coccio, creazioni artigianali che venivano vendute da ambulanti, simpatici oggetti da tanto tempo spariti. Quando gli chiesi di cosa se ne facesse, mi disse che le regalava scherzosamente ai suoi colleghi e collaboratori di La Spezia per dirgli che erano “sonati come una campana”.

Furono sette gli anni che Foffo passò a La Spezia dove si fece ben volere da tutti e dove rilanciò il giornale. Nel 1963 eccolo di nuovo a Lucca nella redazione di piazza del Giglio in sostituzione di Andrea Angeli che ricordo con tanto affetto e che era passato alla redazione centrale di Firenze. Io, per festeggiare l’avvenimento, lo volli come testimone al mio matrimonio dove venne con Tilde, sua moglie, la compagna che ha profondamente amato e che gli è stata sempre vicina anche nei momenti più difficili. Lui aveva già tre figli maschi che gli assicuravano la discendenza. Io mi accingevo ad iniziare la difficile “carriera” di marito e padre. Erano anni di fermento. Passato il peggio del dopoguerra, l’Italia cominciava a conoscere il benessere. E’ di quell’anno il film di Vittorio De Sica “Il boom” con un Alberto Sordi simbolo appunto del boom economico che si viveva in quei tempi e del  consumismo rampante. Rodolfo, che era sempre stato appassionato della settima arte, spesso faceva un’improvvisata al Circolo del Cinema quando veniva proiettata qualche pellicola che non aveva visto oppure qualche vecchio capolavoro. E sempre dedicò spazio a questa istituzione culturale, ancor oggi in piena attività. Ne fece quasi una piccola storia a pochi anni dalla nascita, con il numero dei soci, il numero dei film proiettati, e le indimenticabili prolusioni del presidente professor Carlo Barsotti.

Ma già negli anni ’50 Del Beccaro dedicò spazio al cinema e in particolar modo alla storia dei cinema lucchesi, con una serie di articoli interessantissimi, diventati oggi documenti di storia cittadina. Dopo una prolusione dotta sull’origine del cinema, parlava delle sale lucchesi. Pietro Landi fu il pioniere che il 19 aprile 1897 organizzò il primo spettacolo cinematografico al Teatro Pantera. Rodolfo Del Beccaro, con un lavoro certosino, ritrovò i documenti del tempo, soprattutto il quotidiano lucchese “L’Esare” da cui si apprendeva ancora del Pantera, dell’antica Farmacia Gemignani trasformata in Cinematografo Lumiere, del cinema Splendor, dei girovaghi che portavano il cinema nei baracconi delle fiere, del nuovo Cinema Lumiere in via Cenami, elegantissimo, con purificatori d’aria, e poi dell’Edison, del Matteo Civitali, del Margherita, il Salone Fissi, il Centrale, il Buon Gusto, l’Americano fino al Moderno e a tutti gli altri che più o meno sussistono ancora. Con questo riusciva a dare spazio alla cultura e quando Mario Soldati girò il film “La Provinciale” nella nostra città, con coraggio lo criticò come romanziere e soprattutto come regista, sperando che il film che stava girando a Lucca lo riabilitasse agli occhi del pubblico e della critica.

Erano gli anni della voglia di riscossa dopo il periodo buio del fascismo. Una riscossa soprattutto culturale che si manifestava con il desiderio di conoscere il buono e il valido di un mondo che stava cambiando, ma anche il buono e il valido di culture che forzatamente erano rimaste lontano da noi. Ecco allora l’appoggio pieno di Rodolfo Del Beccaro alla costituzione di circoli culturali come il “Gruppo Serra”, come “L’Associazione Lucchese Incontri culturali”, organizzazioni che avevano la loro sede in storici caffè come Di Simo e Pult. Il “Serra” era addirittura presieduto dal famoso critico letterario Francesco de Robertis e il gruppo fu l’iniziatore della rivista “Rassegna Lucchese” della cui importanza ho già detto. Sporadiche manifestazioni di vitalità in una città, come diceva spesso il Del Beccaro, abbastanza apatica e addormentata.

Ed è con piacere che accolse la conferenza di Carlo Ludovico Ragghianti a difesa dell’integrità architettonica di Lucca, in un momento in cui si pensava addirittura di coprire il fosso che attraversa il centro storico e fare della via omonima un’arteria a scorrimento veloce degli automezzi. Era troppo innamorato della sua città per non difenderla a spada tratta. Ecco allora che per far capire al lettore lucchese l’importanza del luogo dove era nato, Rodolfo ripercorse certi tratti della storia di Lucca rievocandone i personaggi e riesumando le leggende. Dal Volto Santo alla storia delle Mura, dalla battaglia di Pontetetto fra lucchesi e pisani all’ultima esecuzione capitale mediante ghigliottina in Italia svoltasi nel 1845 a Lucca, dagli articoli su Giacomo Puccini a quelli su Alfredo Catalani, e via di seguito, tutto con entusiasmo e correttezza storica.

Proprio per questo amore per Lucca, combatteva dalle colonne del suo giornale perché  la sua città risorgesse anche dal punto di vista economico e si mettesse al pari di altre che nel risveglio del dopoguerra avevano saputo cogliere spunti vitali per un valido sviluppo. Necessarie quindi le infrastrutture come arterie di collegamento fra l’entroterra e la riviera della Versilia che avrebbero anche aiutato il flusso turistico. Pieno appoggio quindi a quelle manifestazioni, come i Comics, che avrebbero fatto conoscere Lucca a livello nazionale e internazionale, e incitamento per salvare l’industria che cominciava a dare segni di crisi.

Quando Rodolfo Del Beccaro rientrò a Lucca per rimanervi fino al 1986, anno in cui andò in pensione, ritrovò tutti gli amici di un tempo nonché i collaboratori che aveva lasciato imberbi. Ricordo un settembre quando andammo insieme, io, lui e le rispettive consorti, con la mia modesta 500, a Castelnuovo Garfagnana per l’assegnazione del 1° Premio Giornalistico che avevo vinto. E fu una serata simpatica. Io fra una collaborazione e l’altra, avevo scelto il mio campo prediletto, quello dell’arte. La passione in particolare per la pittura era seconda solo a quella per il cinema. E la potevo alimentare perché, sia pure lentamente, l’interesse per l’arte aumentava anche a Lucca e cominciavano a sorgere diverse gallerie. Ero decisamente un modernista e forse su questo punto non andavamo tanto d’accordo. Ma Rodolfo non si permise mai di intromettersi per indirizzare le mie recensioni a piacer suo. Mi lasciò sempre la massima libertà anche se a volte i miei articoli potevano urtare la suscettibilità di qualche pittore o scultore. Una volta, entrando in redazione, ci facemmo delle risate grasse perché era uscito da poco uno scultore che gli aveva detto che se mi incontrava mi avrebbe spaccato una sedia in testa. Ridemmo tanto sullo scampato pericolo.

Ecco, su questo ritmo umano e professionale, passarono velocemente gli anni. Passò il miracolo economico, passò il ’68, passarono gli anni di piombo e quelli di sangue fino ad arrivare agli anni degli yuppie, dell’arrivismo sfrenato, del consumismo senza controllo. Rodolfo Del Beccaro testimoniò con obiettività i risvolti che questi avvenimenti ebbero nella nostra città. Lo fece da bravo cronista e lo fece da bravo capo servizio. Tantissimi colleghi gli dovettero sempre qualcosa. Anch’io, e lo ringrazio ancora per tutto, compresa una vera sana amicizia.

Mario Rocchi

Giorgio Batini – “IL MIO AMICO FOFFO”

PROFESSIONISTA ESEMPLARE. In quel triste giorno del 2003 in cui scomparve Rodolfo Del Beccaro, Lucca perse uno dei suoi figli migliori, uno dei cittadini più amati e stimati, il giornalismo toscano perse una penna prestigiosa, autorevole, colta, e al tempo stesso piacevole e comprensibile (com’erano le penne dei cronisti di appena ieri), “La Nazione” perse un illustre e prezioso rappresentante, noi perdemmo un grande, carissimo, insostituibile, amico.

      Lo chiamavamo Foffo.

      E così lo chiamavano i direttori e i caporedattori dei giornali, così lo chiamavano tutti i colleghi, così lo sentivamo salutare dai passanti che lo incrociavano in Fillungo, o in piazza del Giglio a Lucca, e da quelli che incrociava in via Chiodo o in via del Prione a La Spezia. Un giorno infatti, dopo aver scritto le cronache lucchesi per il “Nuovo Corriere”, fu chiamato a Firenze dalla direzione del vecchio giornale risorgimentale di Bettino Ricasoli, che dovendo affrontare il problema della redazione spezzina di cui era venuto a mancare il titolare, chiese a Rodolfo Del Beccaro se avrebbe accettato di lasciare la propria città e di trasferirsi armi e bagagli nel golfo ligure per assumere quel delicato incarico. Foffo, che era divenuto professionista da non molto tempo, ma che aveva sufficiente esperienza, accettò la nomina, e questo già dice come la direzione di un grande giornale quale “La Nazione” non ritenesse Del Beccaro soltanto un corrispondente capace di raccontare le vicende, ovviamente a lui ben note, di casa sua, ma lo considerasse una specie di “inviato”, cioè uno di quei giornalisti tuttofare che poteva scrivere in qualunque luogo e di qualunque argomento, e quindi passare senza alcun imbarazzo professionale dalla rive del Serchio a quelle del golfo de La Spezia, dove lo attendevano anche argomenti per lui insoliti come i cantieri navali, e la marineria mercantile e militare. Le aspettative del giornale fiorentino furono largamente soddisfatte poiché Del Beccaro riuscì a far apprezzare maggiormente dai liguri un foglio toscano e ad accrescerne la diffusione. Dopo qualche anno tornò nella propria città dove assunse la direzione dell’ufficio di corrispondenza.

      A noi (considerati in quel periodo dei veri e propri “giraregione”, per cui eravamo spediti in Toscana, in Liguria, in Umbria a seconda delle necessità redazionali), capitò più volte di essere inviati a Lucca, o nella sua provincia (dalla Garfagnana alla Brancoleria, dalle Pizzorne alle vette apuane, dall’Orecchiella alle spiagge della Versilia), e ricordiamo con gratitudine che il nostro impegno è sempre stato “alleggerito” dal prezioso aiuto dell’amico Foffo che sapeva indicarci dove andare, chi contattare, cosa ricercare. Grandissimo l’aiuto, ad esempio, quando raccogliemmo le immagini lucchesi della fine dell’800 e dei primi anni del ‘900 (era il 1972) per compilare l’Album di Lucca stampato da La Nazione con la storia e le storie della città della Pantera.

      E per quell’Album Foffo scrisse anche tre documentatissimi e lettissimi “pezzi” sui Caffè letterari del passato, sui primi cinematografi, sulla storia dei teatri locali. Li scrisse da par suo, raccontando curiosi episodi. Sul “Giglio” scrisse ad esempio che se era piccolo il teatro era anche piccolo lo Stato lucchese. E un giorno che la famosa Malibran cantava al “Giglio”, il Duca le raccomandò “di non sbracciarsi troppo perché altrimenti correva il rischio di uscire dal Ducato…!”.

      Avevamo ricevuto molti amichevoli e preziosi aiuti anche quando, anni prima, eravamo andati a La Spezia per scrivere di argomenti cittadini in speciali pagine promozionali, e ci aveva sorpreso la sorprendente velocità con la quale Del Beccaro – totalmente estraneo all’ambiente – era riuscito a stringere quelle amicizie – tra le autorità, i professionisti, gli imprenditori, i lavoratori, nel mondo della scuola, della sanità e naturalmente della Marina – indispensabili per affrontare ogni giorno le notizie e i problemi della cronaca cittadina, e per fare il corrispondente del “Corriere”, di altri quotidiani e della RAI.

      Era anche sorprendente sentirlo chiamare “Foffo”, e salutare come un vecchio amico, quando passava per via Chiodo, via del Prione, quando ci recavamo insieme a Lerici o a Portovenere.

      Quel nome confidenziale ingannava un po’ sulla natura del personaggio. Che in realtà era una persona molto seria, autorevole, signorile, amante della cultura, che avrebbe potuto fare la sua bella figura (come altri, del resto, nella sua famiglia) in un’aula universitaria, in un laboratorio di ricerca, in un ambiente intellettuale, in un clan letterario. Aveva però il dono di saper stare con tutti, di avere le parole giuste per tutti, di “sentirsi” come tutti gli altri, di non considerarsi un privilegiato e di voler essere un comune cittadino della sua città. Il raro dono di essere un gran signore, ma “alla buona” come si dice da noi.

      Ed anche noi (che ne sapevamo la profonda cultura, gli elitari interessi, la dignità del suo vivere) preferiamo ricordarlo come “l’amico Foffo”. Una persona volutamente semplice, un esempio d’intelligente modestia. Un  indimenticabile esempio di nobile giornalismo. 

                                                                                      Giorgio Batini

Antonio LovascioGIORNALISTA-GENTILUOMO E UN PERFETTO LUCCHESE

CORRETTA INFORMAZIONE. Colto, sobrio, riservato, gentiluomo: direi un perfetto lucchese. Ma la discrezione praticata come stile di vita non ha certo impedito a Rodolfo Del Beccaro di essere anche un bravo giornalista, innamorato della sua città, uno spirito libero amante della verità, incapace di aderire ai luoghi comuni più conclamati. Un cronista fedele all’etica professionale, che voleva conquistare consensi giorno per giorno sul campo, più che con denunce clamorose. Lo scoop lo inorgogliva solo se – nel dare una notizia in esclusiva su La Nazioneo nelle sue corrispondenze per il Corriere della Sera o, prima ancora,  per la Rai  –  non calpestava la dignità, i diritti e le ragioni dei protagonisti.

Le regole della corretta informazione – che aveva appreso al “Nuovo Corriere” di  Romano Bilenchi e poi alla “Nazione” da grandi direttori come Alfio Russo, Enrico Mattei, Domenico Bartoli, Gianfranco Piazzesi – erano insomma scolpite nella sua coscienza. Non sgarrava mai, non accettava forzature,  “Foffo”. L’ho toccato con mano quando nel 1982,  Piero Magi mi inviò in missione a Lucca, per un anno, con Beppe Mascambruno. Era una delle prime operazioni di rilancio, imposta dalle trasformazioni tecnologiche, dalla necessità di adeguare il giornale ai tempi, prefigurando un vero e proprio fascicolo locale che fronteggiasse la concorrenza di un quotidiano meno radicato nella storia della città ma aggressivo (“Il Tirreno”) e di un’altra testata decisamente orientata a sinistra, da poco lanciata  da Eugenio Scalfari, con un’edizione toscana ma più elitaria (“La Repubblica”)

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Del Beccaro non si impauriva di fronte a tutti questi concorrenti ed  a termini quali “nuova grafica”  o “tabloid” appena entrati nel glossario giornalistico. Assecondava la creatività e le propulsioni dei colleghi più giovani (Franco Barghini); con “far play” caldeggiava un “gioco di squadra”,  lui che per tanti anni era stato  “il corrispondente” e poi  – mattone su mattone – aveva costruito una redazione variegata per sensibilità ed estrazione, accogliendo infine tra i collaboratori anche alcuni giornalisti (Oriano De Ranieri e Paolo Mandoli in primis) che avevano mosso i primi passi della professione sulle pagine lucchesi del quotidiano cattolico “Avvenire”.

Il suo Vice era Paolo Galli, altro spirito libero che esaltava uno stile “alla Gianni Brera”  nella cronaca come nello sport. E nelle pause di lavoro alimentava interminabili e appassionate discussioni sulle fisiologiche crisi della Lucchese con Marco Landi, Emiliano Pellegrini, Luciano Nottoli, Alessandro Del Bianco (tragicamente scomparso),  Domenico Tani, Paolo Ceragioli. Che  spesso coinvolgevano, con più distacco, pure i critici Mario Rocchi (arte) e Francesco Cipriano (musica), nelle loro fugaci apparizioni.  

Rodolfo Del Beccaro aveva la passione giornalistica stampata nel sangue.  La cultura – mi spiegava il  professor Umberto Sereni – era nel Dna di famiglia. II fratello Felice, intellettuale di prim’ordine: docente alla Sorbona di  Parigi, ha ripristinato e diretto per anni la “Rassegna Lucchese”, il  periodico nel quale si davano appuntamento i maggiori scrittori italiani. “Foffo” non ne soffriva  il complesso. Anzi gli  brillavano gli occhi quando, con affetto e grande ammirazione, mi parlava di Felice. E  legava i suoi saggi e i suoi studi a poeti, artisti o intellettuali del calibro di Giuseppe Ungaretti (“Vedi – mi diceva – come nelle sue poesie ha saputo rendere lo smarrimento dell’uomo alla ricerca delle proprie identità e delle radici: è la forza  interiore che gli hanno trasmesso i genitori, nati a San Concordio e S. Alessio!”); Giacomo Puccini, Enrico Pea, Lorenzo Viani, per non parlare di Mario Tobino, Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio, Guglielmo Petroni, che nelle loro opere hanno  sempre avuto Lucca all’orizzonte. Tutti a modo loro grandi protagonisti del Novecento.

Questo era il “retroterra” di Del Beccaro. Con tale bagaglio di letture, di rapporti e frequentazioni, senza tentennamenti ma con grande equilibrio faceva il  Capocronista al servizio della città e delle Istituzioni, mai succube della politica. Nell’unico “lembo democristiano” in una regione tutta rossa. Caratterizzato da una classe dirigente assai agguerrita, un po’ litigiosa  ma preparata: Maria Eletta Martini, Giuseppe Bicocchi, Piero Angelini e poi Arturo Pacini,  Moreno Bambi,  Mauro Favilla (poi ritornato, dopo 20 anni, come sindaco a Palazzo Orsetti), per citare solo gli epigoni del “monolite” scudocrociato.

Critico nei confronti degli amministratori pubblici quando a volte, nella loro attività quotidiana, non riscontrava un convincente spirito di servizio. Una classe politica – si commentava con Rodolfo – cresciuta assorbendo essenziali lezioni comportamentali dalle fertili  tradizioni della Chiesa locale, che fin dal 1958  ha avuto nell’arcivescovo monsignor Enrico Bartoletti (e poi in monsignor Giuliano Agresti) “il traghettatore sulla sponda del Concilio”.  Una “bussola” che ha orientato non solo Lucca ma  tutta l’Italia verso un dialettico e costruttivo dialogo-confronto tra cattolici e laici. Un magistero  profetico, che interpretato e finalizzato da sacerdoti illuminati come don Pietro Gianneschi, don Sirio Valoriani, don Arturo Paoli,  o da “preti di strada” come  l’indimenticabile don Franco Baroni e don Bruno Frediani fondatore del CEIS,  ha forgiato un Volontariato ricco di articolazioni e di generose presenze fortunatamente ancora vive nella società lucchese. 

Proprio  “Foffo” aveva  “battezzato” don Baroni “il nostro giornalista di complemento”. Infatti don Franco non arrivava mai nella redazione di piazza del Giglio  a “mani   vuote”. Portava sempre qualche ghiotta notizia,  servita su un piatto d’argento: la sua sete di giustizia e verità; dopo essersi naturalmente prima occupato dei parrocchiani a San Michele in Escheto, di  nomadi, artisti circensi e televisivi ed anche dei “suoi” vigili urbani, di cui si vantava essere “il cappellano”.  

Del Beccaro era soprattutto orgoglioso delle battaglie che “La Nazione” in quegli anni faceva perchè Lucca, – la “saggia formica” – diventasse una città moderna e rompesse l’isolamento con il resto della provincia. Si impegnò in prima persona nel dibattito avviato dal giornale per dare una soddisfacente soluzione ai sempre rinviati problemi della viabilità in Mediavalle-Garfagnana e nella Piana; per non parlare dell’assedio asfissiante del traffico in città (quando ancora non c’era la Ztl) e dei parcheggi. Lottò per  salvare le Mura e sollecitare un organico piano urbanistico, grandi progetti di restauro del centro storico, per il recupero-utilizzazione di complessi importanti come Villa Bottini e San Micheletto che hanno trovato poi nel tempo la definitiva valorizzazione come centri culturali, universitari e finanziari.

Una volta andato in pensione,  Rodolfo non ha smesso di scrivere. Ha riordinato i suoi appunti ed approfondito le ricerche su Giacomo Puccini, ricordandolo  poi in un libro “discolo e organista a Mutigliano”. Nel 1995 ha rinfrescato le storie e le  leggende lucchesi in una gustosa pubblicazione. E sicuramente avrebbe apprezzato la raccolta di fascicoli che “La Nazione” – per iniziativa di Remo Santini – ha riproposto successivamente, riportando anche alcuni dei suoi memorabili racconti. Un omaggio doveroso a quello che è stato per più di 30 anni – dal 1963 al 1986 –  il simbolo trasparente, mai opaco e banale, del giornale a Lucca.

Fino a quando ci ha lasciati Del Beccaro è stato soprattutto prodigo di consigli ed aiuto  per i colleghi più giovani, senza peraltro mai  tradire la sua proverbiale riservatezza. Ha incoraggiato chi (Paolo Mandoli in testa, scherzosamente soprannominato dai colleghi “giornalista e sindaco di piazza” essendogli stata affidata  la gestione del palco di animazione in Piazza Grande) si è battuto per creare, con altri esponenti del Volontariato, un’Associazione che nel nome di don Baroni si occupa della prevenzione e dell’assistenza ai malati del morbo di Alzheimer o di  Parkinson e porta avanti l’opera formativa e ricreativa di don Franco anche tra bambini e giovani. Certamente ha gioito vedendo crescere ed affermarsi come scrittore di successo nel panorama italiano un affezionato collaboratore della cronaca locale, geniale quanto umile: Vincenzo Pardini; che da 30 anni vive a Stabbiano, fa la guardia giurata lavorando di notte e scrivendo di giorno fino a meritarsi prestigiosi premi letterari. Vorrei avere l’intensità di questo narratore lirico ed immaginoso del microcosmo della Garfagnana, per rinvigorire la mia testimonianza su Rodolfo Del Beccaro. Per far capire senza retorica (che lo infastidirebbe!) quanto sia ancora vivo e attuale il suo insegnamento – lui fedele e acuto cronista, con la schiena sempre dritta di fronte agli uomini del Potere spesso condizionati dalle Grandi Famiglie lucchesi  –  per chi muove i primi passi nel mondo della carta stampata.

Se Lucca  (una città fantastica – un gioiello in cui tutti vorrebbero vivere – ma ancora piuttosto chiusa, che conserva tenacemente la sua insularità) negli anni è un po’ cambiata e si è aperta alla Toscana, all’Italia e al mondo (grazie  ad alcune iniziative o manifestazioni culturali di eccellenza) il merito è un po’  del nostro grande “Foffo”.

                                                                                             Antonio Lovascio

3 Commenti

  1. Io e la mia famiglia abbiamo letto con piacere e con orgoglio questo articolo del quale vi ringraziamo sinceramente.
    Tilde Del Beccaro e figli

  2. Concordo anch’io sull’ottima qualità dell’articolo che ci ha fatto conoscere e ammirare questa bella figura di giornalista . E’ stato piacevole rivisitare i decenni del secondo dopoguerra, le tensioni politiche e sociali a Lucca e nel resto dell’Italia e , soprattutto, apprendere la vita e il lavoro “artigianale ” dei giornalisti di quei tempi ormai lontani che guardiamo con romantica nostalgia in un tempo dove tutto avviene a ritmi velocissimi, all’insegna del sensazionalismo e , spesso, della stumentalizzazione politica. Complimenti !!!

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