I soldi dei lucchesi

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo di seguito un intervento inviato alla nostra redazione da Alberto Varetti, presidente della Cassa di Risparmio di Lucca dal 2001 al 2011, e stimato professionista del territorio.

Sono particolarmente lieto del fatto che in questi ultimi mesi sulla stampa di carta e non appaia sempre più spesso l’affermazione che i soldi della Fondazione sono dei lucchesi. Sono felice perché ho sottolineato da anni questa verità ed ora constato che la goccia piano piano ha scavato la roccia.

Infatti i soldi non sono del Presidente di turno che parla in prima persona quando si vuole incensare, non sono dell’Organo di Indirizzo, sempre orgoglioso delle sue decisioni, né – tantomeno – del Consiglio di Amministrazione sempre razionale nella sua gestione, né dei Soci, per i quali, anche se a suo tempo versarono il capitale, vige il divieto di qualsiasi ripartizione dello stesso, anche in caso di liquidazione.

Al contrario ci sono esponenti della ex Cassa di Risparmio di Lucca, poi affluiti alla Fondazione, che, credendo di essere stati unici artefici dei soldi di cui sto discutendo, si ritengono gli unici deputati a decidere della destinazione di queste risorse.

Qui occorre fare una distinzione: è ovvio che gli investimenti di liquidità, cioè quelli necessari a far sì che i soldi ne figlino altri, debbano essere decisi da chi li amministra, ma perché l’avanzo annuale deve defluire secondo i desideri del Presidente? anche disperdendosi in rivoli improduttivi o, a volte, in perdite certe?

Quando nel 1992, con la legge Amato, si concluse il processo di riforma che obbligò gli Enti Morali Economici pubblici (le Casse di Risparmio) a cedere le loro banche lo si fece per rimuovere un’anomalia; un Ente filantropico può ben possedere una banca (anche il Vaticano ne ha una), quello che conta è che la banca sia un mezzo e non divenga invece un fine, uno scopo. Questa riforma ha generato,  senza alcuna soluzione di continuità rispetto al passato, le c.d. Fondazioni bancarie, queste hanno solo aggiornato lo statuto degli Enti pubblici preesistenti e non sono una cosa nuova. Tuttavia si pose il problema di come riorganizzare queste “novità”.

Cerco di spiegarmi con un esempio: la nostra Cassa di Risparmio nacque nel 1835 come Ente caritatevole con lo scopo di incentivare il risparmio e provvedere alle categorie bisognose, nel tempo l’attività di gestione del risparmio si sviluppò fino a divenire una vera e propria banca; gli utili della banca non venivano distribuiti a nessuno, vigeva però l’obbligo di destinarli, per cinque decimi, a quello che oggi si chiama il territorio. Chi decideva queste erogazioni?

Certamente l’impulso partiva dal Presidente che si avvaleva della collaborazione di commissioni (beneficienza, libri, immobili, ecc.), formate da Soci ed Amministratori.

Certamente i proventi per la contribuzione derivavano dalla gestione oculata della banca, ma i tempi consentivano una generazione di profitti sicura e stabile.

Il Sistema bancario è sempre stato protetto pubblicamente e nella nostra provincia depositare i soldi alla Cassa o prenderli per finanziare attività d’impresa era un onore, ciò faceva sì che poco si guardasse alle condizioni praticate che erano, mediamente, più “care” del resto del Sistema.

Non deve quindi stupire che, nel tempo, si sia generato un cospicuo patrimonio (si sa gli interessi corrono anche di notte), il tema è chi ha pagato questi interessi: perché mai il merito della produzione di questa ricchezza deve essere attribuito solo a chi operava nella banca e non anche alla comunità che lo ha consentito, facendola agire in un quasi monopolio, ricevendo in cambio solo i cinque decimi del profitto?

E’ bene ricordare che, quando fu operata la “trasformazione” dell’Ente in Fondazione, sorse il problema di come destinare le risorse che si sarebbero originate dalla vendita della banca, risorse allora certamente pubbliche. Non mancò chi affermò che le stesse dovevano affluire al Ministero del Tesoro, ma non mancò chi affermò che tale attribuzione avrebbe sollevato le città, che venivano scippate. Fu così che, con un compromesso politico, si decise di istituire nelle Fondazioni gli attuali Organi di Indirizzo, composti al 50% da persone cooptate dalla Fondazione ed al 50% da persone provenienti dalla mano pubblica, poi la Corte Costituzionale, con una curiosa sentenza, affermò che le Fondazioni erano divenute magicamente private.

Tutti felici: il “privato” è sintomo di snellezza operativa, non dà obbligo di denuncia penale in presenza di malaffari, non dà obbligo di ricorrere ad appalti per iniziative edilizie (ma è proprio così?), consente di redigere bilanci disattendendo il Codice Civile, gli amministratori non rischiano il falso in bilancio: una cuccagna!

A sopraintendere alle Fondazioni deve essere istituita un’ennesima Autorità nazionale, ma in mancanza di questa (sono passati quasi trent’anni!) il tutoraggio è rimesso al MEF, cioè alla politica.

Prima conclusione: le risorse della Fondazione, cioè quelle dell’Ente Morale Cassa di Risparmio di Lucca, poi Fondazione bancaria e, magicamente, divenuta privata, sono della comunità della provincia di Lucca e devono essere utilizzate per il suo sviluppo.

Ulteriore conclusione: la Fondazione non può disattendere le richieste della collettività, se c’è da restaurare la Manifattura Tabacchi o realizzare comunque interventi di rilievo pubblico lo si deve fare con scelte e criteri condivisi dalla comunità locale. Se ciò comportasse la riduzione di altre erogazioni basta spiegare a tutti che lo si farà per progetti di interesse collettivo.

Conclusione finale: così stando le cose, nessuno si illuda di poter piegare le Fondazioni alle richieste legittime delle comunità locali: decide solo il Presidente di turno. Si può solo sperare che questo, per puro caso, venga cooptato in una persona eccezionale, di grande levatura intellettuale, di grande cultura, lungimiranza ed esperienza, esiste in quel di Lucca se non un Draghi almeno qualcuno che gli assomigli?

In questa messianica attesa è meglio promuovere iniziative per modificare questo stato di cose, cominciando dal basso e con il fine di arginare le voci critiche all’operato della Fondazione, partendo dal presupposto che della Fondazione è auspicabile se ne parli solo bene.

Per esempio, perché non stabilire che i Soci non possono ricevere contributi per iniziative da loro direttamente o indirettamente promosse? Attualmente non esiste questo divieto e ciò rende possibili censure di servilismo a carico dei Soci, non è bello.

Ci sono tante cose da fare per migliorare le regole sul funzionamento delle Fondazioni, alcune concernono lo statuto e devono essere approvate dal MEF; molte, regolamentari, sono di competenza degli organi della Fondazione.

Ci vogliono i suggerimenti di tutti per ottenere un risultato che consenta di migliorare la struttura organizzativa della Fondazione: questa è un’istituzione umana e tocca agli uomini di migliorarla.

Si potrà affermare che le critiche ci saranno sempre, lo so, l’ottimo non esiste, ma una cosa è che sussistano ragioni per criticare, altro è che cause avverse diano motivo per criticare. Infatti le iniziative umane possono fallire per cause imprevedibili e le critiche, in questo caso, sono ragli degli asini, ma è triste quando falliscono per ragioni preesistenti e le critiche sono fondate”.

di Alberto Varetti

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