“È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”

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(Winston Churchill, da un discorso alla Camera dei Comuni, novembre 1947)

Sento spesso parlare di Politica. Sempre, invariabilmente, con disgusto e sufficienza. O, peggio, con malcelato desiderio di trarne un qualche vantaggio personale.

In una “quasi-recente” indagine, l’ISTAT ci dice che negli ultimi anni le persone che non partecipano assolutamente alla vita politica sono arrivate quasi ad 1 su 4. Cioè un cittadino su quattro non si informa, non vota, non ne parla mai e non si interessa minimamente.

Più importante ancora: meno del 10% (circa 8%) dei cittadini è attivamente interessato alla politica. Cioè fa alcune delle cose sopra riportate con una certa regolarità.

(fonte Istat: https://www.istat.it/it/archivio/244843).

In questi giorni un amico, in relazione ad un mio articolo della settimana scorsa, mi ha detto che anche lui vorrebbe contribuire a far cambiare le cose; vorrebbe che uscisse un po’ di grigio dalla politica e vi entrassero dei colori e mi ha stimolato alcune riflessioni. 

Mi sono quindi interrogato su cosa serve davvero per fare politica in generale. E su come si vince una competizione che è dominata da regole non favorevoli. Perché il vero problema è che ogni competizione si vince capendo e adeguandosi alle regole che la definiscono.

Le regole della competizione politica le conosciamo tutti: il voto popolare è l’elemento determinante. Determinante, sì, ma non l’unico, ma di questo ne parleremo altrove.

Quindi, la domanda che ci dobbiamo porre è: come si ottiene un voto popolare da parte di un insieme di soggetti che non sono interessati a quello che dici e quello che fai? Esiste un metodo meritocratico che le persone interessate possano utilizzare per emergere?

Al momento dobbiamo dire che questa possibilità di emersione dei migliori non c’è. Mi spiego meglio.

La democrazia si basa su una responsabilità condivisa, estesa e generalizzata riguardo alla vita pubblica e alle conseguenze delle scelte che vengono fatte. E le statistiche ricordate in apertura ci dicono che questa presa di responsabilità generalizzata proprio non c’è. 

Gli attori, in questo gioco, sono questi. 

C’è una minoranza (il suddetto 8%) che si interessa, partecipa, crea opinione parlando di temi che gli sono sensibili, discute e orienta le scelte. 

E c’è una rappresentanza politica che è sottoposta da una parte dalle pressioni della minoranza politicamente attiva della popolazione; dall’altra dal bisogno di avere il voto della larga maggioranza che segue poco o nulla.

E qui cominciano i problemi. Se le regole sono queste (e lo sono), è chiaro che una parte della minoranza attiva può operare per orientare la maggioranza passiva attorno a elementi emotivi o di interesse economico di parte. E i politici di professione faranno lo stesso per mantenere il potere. E quindi, invece di orientare le scelte su una prospettiva di miglioramento complessivo (che sarebbe il vero interesse della suddetta maggioranza), l’azione politica viene completamente focalizzata da interessi di parte e di breve periodo.

È soprattutto l’emotività che può confondere l’opinione pubblica. E far passare proposte che, nel medio periodo, non sono vantaggiose per la maggioranza delle persone. 

In parole semplici: il potere lo detiene e lo orienta una minoranza della popolazione tra attivi e politici di professione. I quali (per dirla con Sheldon Cooper della fortunata serie tv “The Big Bang Theory”) “sono astuti: sfruttano il mio [nostro/generalizzato] totale disinteresse per tutto quello che dicono o fanno” i politicamente attivi (politici e minoranza attiva).

Facciamo tre esempi: situazioni in cui delle cose, evidentemente non vantaggiose per la maggioranza della popolazione, sono diventate dei messaggi di maggioranza grazie a un mix di interessi ed emotività. Emotività che viene utilizzata per nascondere gli svantaggi che un ragionamento sui contenuti potrebbe facilmente mostrare.

Quota 100 (e con questo tutti i sistemi di prepensionamento, mestieri usuranti ecc.): è palesemente un sistema iniquo rispetto alle generazioni. È chiaro che non potrà essere mantenuto per sempre ma incrocia gli interessi di una (relativamente) piccola fetta di persone che sono prossime alla pensione. E non tiene in conto che ciò che manca nella contribuzione di chi va in pensione anticipatamente, dovrà essere versato da chi lavorerà in futuro (ma che dovrà versare anche per sé stesso, visto che il sistema deve essere riequilibrato).

La scuola: è da molti anni il luogo di pretese sindacali, ingiustificate campagne di orientamento della cultura pubblica e assurde sperimentazioni, il tutto condito da un clamoroso calo dei risultati in termini di conoscenze dei nostri ragazzi. E senza che questo abbia comportato una vera riflessione pubblica. In questo caso, ovviamente, il fattore di forza sono gli interessi economici del milione di dipendenti che vi lavorano dentro. Ed è irragionevole che la risposta ai problemi dell’apprendimento sia ancora maggior appiattimento delle differenze tra docenti buoni e quelli mediocri invece che progetti più sfidanti, verifiche delle competenze dei docenti e crescita salariale legata a forme di misurazione delle performance di apprendimento dei ragazzi.

Il reddito di cittadinanza: è una soluzione demagogica e non funzionante per il problema della povertà e della tutela di chi non ha lavoro. Non funziona perché ha evidenti effetti di cronicizzazione (riduce la propensione al lavoro anziché incentivarla per le persone che lo ricevono) e non offre prospettive di cambiamento a chi entra in questo sistema, con un aumento della trasmissione generazionale dei problemi. Oltretutto funziona da stimolo per il lavoro in nero.

Cosa concludiamo?

Che abbiamo una pistola carica in mano e che ci giochiamo alla roulette russa. Che siamo, cioè, mediamente inconsapevoli del peso e della responsabilità che il sistema ci mette addosso.

E, in più, il sistema dei social media ha trasformato quella pistola in un mitragliatore d’assalto. Perché le regole della promozione dei post sono fatte in modo da favorire ciò che è più scandalistico, spettacolare e divisivo. Perché la divisione e la contrapposizione genereranno più interazioni delle riflessioni celebrali. Più interazioni = più pagine viste. Più pagine = più pubblicità quindi più soldi. 

In questo mercato lo spazio per una proposta moderata, per una riflessione sul futuro (che è quindi inevitabilmente più complessa), è largamente minoritario. E quindi perdente nelle attuali regole elettorali.

Quindi bisogna arrendersi? Non necessariamente ma neppure sottovalutare i problemi. 

Esiste una possibilità: che molte persone “serie” riescano a coalizzarsi in un movimento dietro ad un leader “serio” e a creare una opinione pubblica determinante. A diventare cioè degli “opinion maker” non già in forza di passaparola “social”, ma per effetto di autorevolezza e fiducia veicolabile tramite i mass media. Una simile aggregazione, ancorché improbabile, potrebbe quindi essere veramente attrattiva e operare da “game changer”, cioè avere la forza di cambiare le regole del mercato della politica.

Utopia? Probabilmente sì. Ma qualcosa è accaduto con Draghi. E le statistiche sui casi rari ci dicono che questi tendono ad avvenire a coppie o triplette… chissà… 

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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