Come si affronta la povertà? Torniamo a parlarne.

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Vorrei tornare a parlare del tema della povertà e di come affrontarla. E vorrei farlo partendo da concetti generali che prescindano dai numeri che sono stati raccontati in questi ultimi tempi (che meriterebbero un approfondimento…) che imporrebbero anche delle riflessioni sulla sostenibilità degli interventi progettati.

Vorrei, piuttosto, riflettere su aspetti di dignità e umanità di tali interventi e sulla loro necessità in generale come espressione di ciò che siamo come comunità di cittadini di uno stato: legati da vincoli di solidarietà e di impegno reciproco.

La povertà è, a mio avviso, divisibile di due tipi a secondo della causa che la ha provocata. Il primo è quello indotto da una condizione di minorità permanente e insuperabile: è il caso di persone che non possono lavorare per le più svariate cause e che si trovano perciò in una condizione di impossibilità pratica a mutare la loro situazione. In questo caso l’unico intervento possibile è quello che cura i sintomi di questa povertà. Per questo deve esistere un sussidio strutturale per le persone che ricadono in questa situazione. Un sussidio a carico della collettività che serva a garantire una condizione minima di dignità. È un presidio di civiltà che deve essere garantito in quanto una comunità non può abbandonare i propri membri quando sono in difficoltà.

L’altro caso è quello della povertà occasionale: quella che si innesca quando, per i casi della vita, uno resta intrappolato in una situazione in cui non è in grado, per i più svariati motivi, di risollevarsi per proprio conto da una situazione negativa e quindi, in assenza di assistenza e supporto, è bloccato in un circolo vizioso che lo trattiene in uno stato non dignitoso. Per questo tipo di situazioni serve un supporto più complesso: serve supporto economico, naturalmente, ma serve anche un insieme di strumenti atti a «riabilitare» la persona (nel vero senso della parola, cioè rendere nuovamente abile). Il che si traduce in opportunità di lavoro e, probabilmente, formazione per ampliare il ventaglio dei possibili approdi occupazionali.

Questa diversa situazione richiede anche un tempo limitato. È questo un requisito necessario per una pluralità di motivi: il primo è perché lo stato di sussidiato ti toglie effettivamente dall’indigenza (o più semplicemente dal bisogno) ma lo fa togliendoti una parte della dignità che invece dovrebbe garantirti perché un uomo (inteso come categoria indistintamente dal genere) non può avere una vita veramente dignitosa se, potendo lavorare, non viene messo in condizioni di farlo; il secondo perché non è bene stuzzicare il lato peggiore delle persone e indurre qualcuno a pensare di poter vivere alle spalle degli altri.

A mio avviso le parole che usiamo per indicare le cose sono almeno altrettanto importanti della sostanza. Nelle parole infatti c’è l’idea che vogliamo trasmettere e il senso delle nostre azioni. Così sarebbe pessimo chiamare un sussidio per le povertà strutturale “elemosina per i deboli” anche se fosse un sussidio robusto e ben definito nelle forme di attuazione.

Il precedente sussidio universale si chiamava “reddito di cittadinanza”. Questa locuzione voleva far intendere, ed effettivamente lo diceva, che ogni cittadino ha diritto ad un reddito. Che lavori oppure no, che sia in difficoltà o meno: ha diritto ad un reddito. Questo era anche il Grillo-pensiero: che in un futuro più o meno lontano, tutti avremmo vissuto senza lavorare, magari perché le macchine (o chissà cosa di altro) avrebbero provveduto a tutto. Che la vita dei cittadini dovesse essere un progressivo abbandono all’ozio, magari idilliacamente visto nel senso latino, come dedizione a studi e impegni liberamente scelti.

A parte la valutazione su una tale prospettiva, che ogniuno può considerare come vuole ma io ritengo distopica, resta il fatto che nulla di tutto ciò è attuale e il lavoro è necessità per vivere almeno, se non di più, di quanto lo è per avere una dignitosa esistenza. Nel nostro contesto, quindi, l’idea di un reddito solo per il fatto di essere cittadini è una istigazione all’assistenzialismo e un giocare con quella parte peggiore dell’animo umano con cui non solo non si dovrebbe giocare ma che anzi andrebbe censurata e contrastata.

Non voglio qui né difendere né discutere la pratica realizzazione della nuova legge che è andata a sostituire il precedente RdC: sicuramente è migliorabile, ed è auspicabile che migliori, e altrettanto sicuramente almeno una parte del centrodestra ha usato toni poco consoni alla delicatezza di tante situazioni. Ciò nondimeno, ritengo che l’impostazione di base sia corretta: la distinzione in del sussidio per la povertà strutturale da quello per chi è in grado di lavorare, il dare un tempo massimo per il reinserimento, il prevedere percorsi formativi e il coinvolgimento di operatori (anche privati) nelle forme di reimpiego attivo (che significa anche un po’ coartato). Ritengo che questi siano concetti giusti e necessari non solo perché i numeri della finanza pubblica non consentono di fare scelte troppo largheggianti ma soprattutto perché è il modo più dignitoso ed etico di aiutare le persone.

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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4 Commenti

  1. Temo che un fenomeno come la povertà nelle società piuttosto sviluppate come la nostra, a partire grosso modo dagli anni ’80 del secolo scorso (come rilevato da Romano Prodi -Il Messaggero del 16 gennaio 2022) non sia del tutto inquadrabile in due sole tipologie. Eppure occorre poterla definire a fini di conoscenza e poi per delineare e mettere in atto interventi sul COME poterla combattere e valutare gli effetti.
    Non ho riflettuto abbastanza sulla questione per caratterizzare compiutamente altri inquadramenti. Allo scopo di evitare proposizioni che sarebbero molto probabilmente viziate da opinioni solo personali non ben fondate su riscontri reali, mi permetto di suggerire un paio di letture che accolgono, da punti di vista diversi e diversamente motivati, serie analisi e considerazioni propositive. Tali comunque da consentire, a chi lo desideri, di formarsi una propria idea su cosa sia la povertà oggi particolarmente in Italia e soprattutto sul come contrastarla con una qualche efficacia, sulla base anche di esperienze concrete (eliminarla del tutto non credo sarà mai possibile anche nelle migliori condizioni):
    1) un’ampia discussione a più mani aggiornata, non accademica, del cammino percorso e della nuova legge – in una prospettiva decisamente “laica” (senza però polemiche contrapposizioni) – è quella a cura dell’ALLEANZA CONTRO LA POVERTA’. Si può trovarne il testo, gratuitamente consultabile, cercando con Google:” Sostegno ai poveri quale riforma?”;
    2) una ricerca annuale ormai di lungo corso giunta alla edizione del 2023, con arricchimenti cammin facendo anche di conoscenze quantitative sul campo, è quella della CARITAS a cura della Conferenza Episcopale Italiana (CEI. Reperibile anch’essa su Google come ”Caritas rapporto povertà 2023”.
    Entrambe fanno spesso ricorso a dati statistici dell’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) che, a sua volta, cura un rapporto annuale prezioso. [Una avvertenza: a causa dei recenti eventi epidemici e di certe altre evoluzioni del nostro tempo non disponiamo più di una serie storica di dati ufficiali confrontabili periodo per periodo essendo state variate le definizioni stesse di povertà per raccogliere dati più aderenti ai fenomeni riscontrabili in realtà. Il che, da solo, la dice lunga sulle difficoltà di definire e documentare la povertà in Italia (come del resto altrove)!]

  2. “… non è bene stuzzicare il lato peggiore delle persone e indurre qualcuno a pensare di poter vivere alle spalle degli altri…”; data questa Sua premessa, che condivido nel caso ci sia la probabile eventualità che ciò accadesse, sono quasi completamente d’accordo con quanto Lei scrive nel post.
    Naturalmente io non ho la capacità di dare soluzioni in merito al problema, e neanche sono, se non come semplice cittadino, deputato a farlo, salvo rilevare una importantissima, secondo me, errata interpretazione da parte sia di alcuni media ma, soprattutto, da parte di certa politica, nei tentativi fatti o proposti per risolvere il problema povertà:

    in special modo per quanto riguardi la povertà di chi sia povero pur lavorando.

    Ultimamente, e, quasi, direi, improvvisamente, si sente parlare di “reddito minimo” e di istituzioni che dovrebbero legiferare per attuarlo.
    Certo, il salario dovuto a chi lavori – ed il lavoro è un diritto, secondo la nostra Costituzione – deve essere tale da garantire una vita dignitosa; anche questo, salvo errori, è sancito dalla nostra Costituzione.
    La Costituzione è la legge suprema, superiore a tutte le altre leggi, per come io la vedo.
    Quindi, perché chiedere una legge che preveda un salario minimo dignitoso, invece di attuare la Costituzione, legge suprema?
    D’altro canto: cosa costa legiferare in merito a tale salario minimo dignitoso, a parte il fatto che, purtroppo, il tutto sarebbe forse aggirabile e, forse, a volte già lo è, per tutti coloro che, purtroppo, fuori legge, pagano in nero oppure potrebbero fare uno statino stipendio con una cifra e, di fatto, pagarne una inferiore, pena il licenziamento alla lamentela? “Tanto fuori c’è la fila”, frase purtroppo classica.
    Non dico che ciò accada ma, osservando e ascoltando i racconti reali di alcune persone, sono portato a pensare alla eventuale, fuori legge, possibilità che alcuni di tali rapporti possano a volte esistere.

    Premesso che non mi riferisco a nessun Governo in particolare, e neanche all’attuale, dato che, da ciò che ascolto da alcuni media in merito all’argomento stipendi, se ben rammento, viene detto che gli stipendi degli italiani, diversamente da quelli di altri Paesi europei, negli “ultimi trenta anni” sono saliti solo dell’1,5%.
    Ripeto: negli ultimi trenta anni!
    Più Governi si sono avvicendati, immagino, in trenta anni.

    Comunque sia, ciò che a me stupisce di più è quando ascolto alcuni media, o alcuni politici, parlare di “Governi” che dovrebbero attuare misure per aumentare gli stipendi.
    Mi stupisce ascoltare ciò perché a me risulta che chi debba pagare lo stipendio, e gli eventuali aumenti relativi dalla contrattazione sindacale, e dai rinnovi contrattuali previsti alle scadenze, sia qualcuno identificabile col nome di
    “datore di lavoro”,
    che è poi colui che usufruisce delle prestazioni lavorative.
    Direi quindi che sia ora di finirla con bonus vari che, invece di far pagare gli aumenti di stipendio previsti a chi di dovere, ovvero al datore di lavoro, finisce, poi, di fatto col farlo pagare alla fiscalità generale; ovvero a tutti noi cittadini, compresi anche coloro che beneficino dell’eventuale aumento; aumento che, quindi, per logica, dopo averlo conseguito, ci si potrebbe accorgere che, o tutto o in parte, ce se lo sia pagato da soli con le tasse necessarie pe ottenerlo; ovvero dalla fiscalità generale invece che dal proprio datore di lavoro.

    Che, quindi, si torni alla normalità: che i lavoratori vengano pagati dai propri datori di lavoro.

  3. Errata corrige:
    laddove scrivo: … “Ultimamente, e, quasi, direi, improvvisamente, si sente parlare di “reddito minimo” e di istituzioni che dovrebbero legiferare per attuarlo…”
    intendevo scrivere e correggo:
    “Ultimamente, e, quasi, direi, improvvisamente, si sente parlare di “salario minimo” e di istituzioni che dovrebbero legiferare per attuarlo.

  4. D’altronde, non appena si legiferasse un salario minimo, questo sarebbe esposto alle fluttuazioni dovute all’inflazione e, quindi, dovrebbe essere periodicamente rivisto in base all’andamento attuale della stessa; non sarebbe un po’ come tornare alla purtroppo, secondo me, soppressa “scala mobile” che, a parte le critiche ricevute, aveva il merito di rivalutare gli stipendi in base all’inflazione?
    Tanto varrebbe ripristinare la scala mobile e chiamare le cose col proprio nome.

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