Vincitori e vinti

-

Come ogni elezione la prima domanda è: chi ha vinto e (spesso più interessante) chi ha perso.

E siccome siamo un po’ tradizionalisti, anche noi ci mettiamo a dare medaglie e medagliette.

Il primo e più fulgente vincitore, nonché primo partito in Italia con uno sfavillante 37%, è il partito dell’astensione. Anno dopo anno è cresciuto con costanza ma a questo turno ha fatto un balzo in avanti. Il merito è dei suoi avversari, si dirà; e questo è innegabilmente vero, ma dobbiamo dire che il progresso è di quelli importanti: più 10%. È un partito che, come da tradizione, si radica prevalentemente al sud con progressi medi del 15% sulle scorse elezioni. È un partito di protesta che raccoglie soprattutto i delusi e i disillusi della politica italiana. Quelli che si sono stancati di promesse a vuoto e di una classe politica che ha dimostrato la propria pochezza e messo  a segno un nuovo record di banalità e inconcludenza nella legislatura appena trascorsa. Pochezza messa clamorosamente in luce da poco più di un anno di governo di un “non eletto”, ma decisamente competente, che ha dimostrato quanto un “buon governo” possa cambiare il paese. Buono, non eccezionale. Eppure sarà ricordato come un momento di svolta. Se per un cambio di direzione permanente o solo una parentesi, lo dirà la storia.

Il secondo posto, ma primo come partito parlamentare, come partito italiano lo conquista, con una affermazione superiore alle già alte previsioni, Giorgia Meloni. E diciamo Giorgia Meloni e non Fratelli di Italia perché questo è, con tutta evidenza, un suo risultato. La chiave di un successo travolgente fin qui è stata una, ancora troppo poco sottolineata, coerenza di comunicazione e azione. Difficile trovare dei cambi di opinione subitanei da parte della leader di FdI. Si può essere d’accordo o non d’accordo con le sue posizioni, ma certo non si può negare che le esponga con chiarezza e le difenda con coraggio. Ha fondato un partito (e già questa è una faccenda che è riuscita a poche persone) e lo ha portato con energia, coraggio e tanto lavoro, da un misero 2% fino allo stravolgente 26% di oggi. Adesso le porte di Palazzo Chigi sono spalancate (altamente improbabile e costituzionalmente difficile che il Presidente della Repubblica non gli affidi un incarico, a meno di imprevedibili fratture del centrodestra). Vedremo che squadra di governo saprà confezionare e che tempra mostrerà. Certo, di esperienza di governo ne ha pochina: solo un ministero senza portafoglio nel 2008 (nel Berlusconi IV, il ministero della gioventù). Però è una che studia e impara in fretta. Ora ha tutte le carte in mano, pienamente guadagnate e duramente sudate. Ma con queste anche tutte le responsabilità del caso. Come dire, ora o porta risultati all’Italia o subirà il destino delle altre infatuazioni di un paese che divora leader al ritmo delle “audition” di X Factor.

Il secondo classificato è il PD. La posizione in classifica è l’unica buona notizia perché è anche il grande sconfitto. Precipita sotto la soglia del 20% sostanzialmente allineato al risultato di Renzi al suo punto più basso. E la sconfitta ha un padre chiaro: Enrico Letta. Ha sbagliato tutto quello che poteva, ha trasformato il suo partito in un donatore universale di voti, roba da far invidia all’AVIS (e non dico alla cattolicissima Fratres per non stuzzicare troppo i compagni del non-più-così-grande partito riformista). Ha donato voti e vita ai 5 Stelle, alla coppia Renzi-Calenda (messi in quest’ordine perché la campagna elettorale ha messo in chiaro chi ha più filo da tessere dei due) e anche ai revanscisti della sinistra-pura-e-dura-con-tratti-ecologisti. Considerando che ha perso anche il contatto con il mondo operaio (che ha fortemente apprezzato il messaggio della Meloni), possiamo dire che i punti che ha perso sono pure meno delle previsioni. Per il PD si apre quindi la stagione dei rimpianti (e dei coltelli). Vedremo che cosa diventerà dopo un percorso di ripensamento che dovrà ridefinire quale è la sua identità: se è un partito riformista o è un partito da sinistra rivendicativa e della spesa pubblica. Lo si vedrà nella scelta di dialogare preferenzialmente con il terzo polo o con i 5 Stelle.

Al terzo posto troviamo i 5 Stelle. Perdono decisamente terreno rispetto alle consultazioni precedenti (di fatto dimezzano il risultato) ma fanno meno peggio delle attese e questo finisce per passare come una quasi-vittoria. Al nord sprofondano sotto il 10% (ma in molte regioni veleggiando dalle parti del 5-6%) ma mantengono parte del radicamento del 2018 al sud. Di fatto cambiano ancora una volta anima e diventano sinistra-sinistra e di quella della spesa pubblica senza controllo. Sono il partito dei bonus e dei sussidi e si radicano al sud spingendo su questi temi, sfruttando il malessere sociale ma anche la radicata tendenza di questo territorio a ricercare tali sostegni. Praticamente abbandonato il tema ambientale, resta la forte capacità di interpretare il malessere con risposte populiste nel peggiore dei significati (ammesso e non concesso che la parola possa avere un significato positivo). Perdono consenso ma non troppo anche grazie alla mancanza di una visione alternativa di cosa sia essere di sinistra. La loro possibilità di crescita è quindi molto legata al senso che il PD saprà (o non saprà) dare al suo essere sulla scena politica. Del resto, anche il «successo» di queta tornata elettorale lo devono alla vacuità del PD che gli ha concesso di presentarsi come la vera-sinistra.

Quarta classificata, e giù dal podio, la Lega nazionale di Salvini. È indubbiamente il secondo grande sconfitto della campagna elettorale assieme a Letta. La sua (si Salvini) Lega dimezza le percentuali rispetto alle scorse politiche (e addirittura cala di due terzi rispetto alle europee). Soprattutto, però, perde il nord. Il che è come perdere la propria identità. Del resto, la trasformazione in partito della spesa pubblica era, a dir poco, una scommessa avventurosa. Scommessa che ha alienato al partito di Salvini le simpatie del nord Italia senza che potesse compensarle con quelle del sud che gli hanno preferito Conte (oggettivamente più credibile nel ruolo di babbo natale con i soldi di “pantalone”).

A seguire, di un soffio, Forza Italia. Che, similmente ai 5 Stelle, possono essere considerati quasi-vincitori perché hanno perso meno del previsto. Berlusconi ha inseguito tutte le sacche elettorali che restavano scoperte da parte degli alleati, compreso quella dei filo-russi. Strategia parecchio spericolata e sfacciata ma che gli ha consentito di non sparire. Assieme all’alleato della Lega non arriva neppure a due terzi  dei voti di Meloni ma restano entrambi necessari per il governo e tanto basta per cantare vittoria.

Quinto partito nazionale che si classifica è il raggruppamento di Italia Viva e Azione. Si accredita un importante 7.7%. Un risultato più che buono ma che paga la troppa foga dei due protagonisti che avevano fissato un’asticella dalle parti di un 10%. Così un risultato di quasi otto punti finisce con il sembrare sottotono. Detto questo, hanno il vantaggio di una posizione significativa conquistata nelle urne. E di una missione riformatrice del centrosinistra; o, in alternativa, di cercare di essere un centro “alla Macron” ma che, allora, deve dire di non essere né di destra né di sinistra, cosa che appare difficile immaginare da parte di due leader che hanno vissuto tutta la loro carriera dentro il PD. Per loro questo periodo può quindi essere un passaggio importante all’opposizione: dialogare sulle riforme costituzionali (con il centrodestra) e riformare il centrosinistra (con il PD), potrebbe essere il percorso verso una nuova vita, a condizione che i due leader riescano a continuare ad andare d’accordo e non si vadano a dividere nuovamente.

Ultimo partito ad entrare in parlamento sono i rosso-verdi di Alleanza Verdi e Sinistra che, grazie al treno del PD, e al fatto che caricandoli in coalizione Letta gli ha implicitamente dato la patente di rappresentante della sinistra, sfondano la soglia del 3%. La loro incisività in questa legislatura ci pare assai poco significativa me resta il fatto che sono riusciti ad entrare.

Ultima nota è l’esclusione di +Europa dal Parlamento. Evidentemente la divisione da Calanda non ha portato bene alla Bonino che, proprio grazie a Calenda (che le ha rosicato voti nel collegio uninominale), si troverà fuori dal parlamento. Si vedrà se saprà reinventare una posizione per la sua +Europa o questo è il canto del cigno.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

Share this article

Recent posts

Popular categories

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Recent comments

Articolo precedente
Articolo successivo