41 Bis

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In questi giorni si parla molto della faccenda dell’anarchico Cospito e del suo sciopero della fame contro il famoso, famigerato, 41 Bis.

La sinistra ha preso una posizione di difesa della persona specifica sostenendo, al contempo, la necessità del «carcere duro». La destra una posizione di fermezza contro le azioni anarchiche che hanno causato parecchio rumore (più fuori patria che da noi in verità).

Ritengo che questo sia uno dei casi di distrazione di massa. Come quando si parla di revisione delle norme sulle intercettazioni telefoniche e ambientali e si porta a sostegno della necessità di mantenerle per il contrasto alla mafia. Che poi nessuno mai ha pensato di togliere le intercettazioni dagli strumenti per il contrasto a tali reati e quindi, un alieno che domani scendesse sulla terra proprio in Italia e leggesse i giornali, si chiederebbe che strani esseri siamo che ci accaloriamo per cose che non hanno alcuna connessione con i fatti reali.

E lo stesso accade per il 41 Bis. Cospito ne chiede l’abolizione. Punto. Non l’abolizione per sé. L’abolizione in quanto sbagliato in generale. E quindi l’abolizione anche per mafiosi e camorristi.

E qui il mondo comincia a impazzire. Beh, a impazzire è più la parte a sinistra che la parte a destra del mondo politico: i primi infatti si lanciano in sofisticate teorie per cui il 41 Bis non si tocca ma per Cospito si dovrebbe fare un’eccezione; i secondi la fanno più semplice dicendo che il 41 Bis va bene così e Cospito è uno come tanti altri per cui “tutto bene”.

Quindi su un punto sia la destra che la sinistra sono d’accordo: la legge non si tocca.

A rigor di logica allora, se tutti sono d’accordo, questo articolo (e la discussione pubblica) dovrebbe finire qui.

Beh più o meno.

Perché il fatto che tutti (o, peggio, “solo” la larga maggioranza) siano d’accordo con una tesi, non ne fa necessariamente la tesi giusta (vedere a tal proposito la Giornata della Memoria…). E allora proviamo a farci qualche domanda scomoda.

La prima è: qual è il senso del 41Bis?

La norma, in sé, appare chiara: lo scopo è limitare la possibilità di alcuni particolari tipi di detenuti di mantenere contatti con il mondo esterno da cui provengono e, così, evitare che si prolunghi anche da dentro il carcere l’azione criminosa che ha determinato la reclusione.

Le misure previste sono sostanzialmente le seguenti:

  • Isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il detenuto è situato in una camera di pernottamento singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere.
  • L’ora d’aria è limitata (concessa solamente per alcune tipologie di reato) – rispetto ai detenuti comuni – a due ore al giorno e avviene anch’essa in isolamento.
  • Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri poliziotti penitenziari. La sorveglianza viene attuata anche tramite il mezzo della videosorveglianza.
  • Limitazione dei colloqui con i familiari (anch’essi concessi solamente per alcune tipologie di reato) per quantità (massimo uno al mese della durata di un’ora) e per qualità (il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio a tutta altezza). Solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti.
  • Nel caso di colloqui con l’avvocato difensore i colloqui non hanno limitazioni in ordine di numero e durata.
  • Visto di controllo della posta in uscita e in entrata.
  • Limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere tenuti nelle camere di pernottamento (penne, quaderni, bottiglie, ecc.) e anche negli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno.
  • Esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati.

Le norme in questione sono quindi decisamente severe e rigide e fortemente impattanti nella psiche del detenuto. Ma significativi sono anche i casi per cui queste norme sono adottabili: essenzialmente gravissimi reati legati a contesti associativi per contrastare i quali si giustifica la severità delle norme. Almeno secondo le sentenze di Corte Costituzionale e Corte dei Diritti Europei che, in più riprese, si sono occupate dell’argomento concludendo sempre che, seppure molto rigorose, le norme in oggetto non sono incompatibili con il nostro ordinamento e con il ragionevole trattamento di un detenuto. Quindi la ratio ultima è l’esistenza di un corpo estero al carcere (ma presente anche dentro tramite altri detenuti) da cui si deve isolare il condannato.

Però il carcere duro è presentato, dagli stessi giudici e dai politici, anche come strumento coercitivo per spingere i mafiosi a «collaborare».

Questa ombra sull’uso della detenzione non è nuova: è ampiamente presente, ad esempio, nelle critiche per l’uso della carcerazione preventiva che spesso accompagna anche reati per cui, in pena definitiva, raramente è prevista la carcerazione effettiva (sostituita magari da pene come gli arresti domiciliari).

Va infatti tenuto presente che, per ovvie ragioni di diritto di difesa, neppure per i detenuti al 41 BIS possono essere limitati i contatti con l’avvocato difensore. Che quindi può essere il tramite di quella continuità che si vorrebbe limitare con un trattamento così rigoroso (non è difficile immaginare che un mafioso possa disporre di un avvocato che sia anche lui un affiliato). Il che limita notevolmente l’efficacia delle misure in oggetto e rende legittimo il dubbio sul fatto che molte delle misure contenute nel suddetto articolo siano più di natura coercitiva che giustificate dall’ottenimento di materiali risultati nell’interruzione del collegamento tra detenuto e organizzazione criminale.

In particolare, non paiono così ragionevoli i limiti nel vedere/sentire familiari stretti o nel ricevere loro foto o libri da leggere. Mentre trovo aberrante che si possa usare, anche solo fattivamente, metodi coercitivi che rasentano le torture per indurre persino dei mafiosi a «collaborare». Il carcere ha due funzioni: riparativa, perché chi ha fatto un danno deve anche pagarlo; e rieducativa per cercare di fare in modo che, una volta ritornato nella vita civile, abbia un’idea diversa di ciò che è giusto e sbagliato e possa essere un cittadino migliore. In nessuna di queste due dimensioni trova spazio né la coercizione a collaborare né la vendetta della pena senza limite.

Personalmente ritengo che il carcere duro possa anche essere una giusta necessità, ma trovo assai poco comprensibili alcune delle disposizioni presenti che paiono più orientate ad «altro» che agli scopi che la legge di prefigge. E, sempre a titolo personale, ritengo che una revisione della norma in un senso più umano, sia auspicabile anche senza la sua cancellazione.

Detto questo faccio fatica a capire perché detta norma debba applicarsi ad un mafioso e non ad un terrorista o ad un attentatore che ha collegamenti con una organizzazione esterna capace di azioni violente.

P.S.

A proposito di applicazione vendicativa, tra i reati che prevedono l’applicabilità del carcere duro ci sono anche quelli di pedopornografia, induzione alla prostituzione minorile e delitto di violenza sessuale di gruppo. Fermo restando che sono reati raccapriccianti, da quale organizzazione così potente da superare le barriere del carcere si vuole isolare questi soggetti?

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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