100 giorni

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Si sono appena conclusi i primi 100 giorni del governo Meloni. È quella che viene chiamata luna di miele: il periodo in cui una nazione concede a chi la governa una fiducia «sulla parola» riconoscendo che quanto accade di male (ma anche di bene) non può ancora dipendere dall’efficacia di chi governa ora ma anche da un trascinato del precedente governo ma, soprattutto, in cui tutti (o quasi) vogliono dare una possibilità alla speranza che le cose migliorino.

Ma i primi 100 giorni di questo governo non sono stati così: la rigidità della crisi internazionale in cui viviamo, la necessità di fare una finanziaria in tempi strettissimi, una radicata diffidenza per l’area politica da cui la premier viene, hanno portato ad un clima di incertezza, diffidenza e, persino, allarme. Un clima alimentato, per lo più, non da un’opposizione annichilita dalla sconfitta elettorale e dalle divisioni interne, quanto da una società civile in cui i principali influencer hanno sempre militato (o almeno dichiarato vicinanza) al centrosinistra.

Ma anche il mondo dei grandi giornali nazionali ha preso le distanze da questo governo in modo assai preventivo. Lo ha fatto La Repubblica, che è schierata dichiaratamente a sinistra, ma lo ha fatto anche il Corriere della Sera. E questo è un fatto che è più sottile e più importante. Perché denota che questo governo non ha l’appoggio delle grandi burocrazie dello stato: quei dirigenti della pubblica amministrazione che hanno casa a Roma (perché sono dirigenti dei ministeri e delle altre istituzioni nazionali) e che hanno sempre cercato e trovato il modo, di cooperare con tutte le forze politiche (e condizionarle).

Intendiamoci, non che la Meloni non conosca questo mondo e queste persone: è vissuta della politica romana sin da ragazzina e ha fatto tutta la gavetta nelle istituzioni; è stata ministro (seppure di un ministero senza portafoglio e sottovalutata) e ha conosciuto tutti i lati del potere; ha messo tutto da parte per lanciarsi in quella che tutti pensavano una crociata di nostalgici di destra e che invece si è rivelata una marcia trionfale fatta di idee e di sentimenti coerenti con il sentire della maggioranza della popolazione; ha messo nel sacco gente di indubbie capacità comunicative e con organizzazioni imponenti come Berlusconi e Salvini rubandogli lo scettro del centrodestra senza avere a disposizione null’altro che la mitica “fionda di Davide”. Sottovalutare questa persona sarebbe un errore davvero stupido. Quindi non possiamo che dedurre che sia ben conscia del gap e dei rischi che questa situazione comporta. Ma qui mi interessa di più sottolineare che proprio questa reciproca conoscenza, seppure marcata dall’evidente sottovalutazione che l’alta burocrazia ha fatto dell’attuale premier, ci racconta che tra “lei” e “loro” c’è un muro: c’è una direzione che evidentemente spaventa questa burocrazia o, almeno, la porta a credere che l’attuale inquilina possa essere una minaccia allo status quo.

E probabilmente è vero. Visto che per la prima volta la presa del potere non coincide con toni trionfalistici e palingenetici assai privi di azione ma piuttosto con una tabella di marcia molto serrata di riforme istituzionali e di relazioni internazionali. Un’agenda caratterizzata da una concretezza a volte un po’ spiccia ma certo non priva di efficacia e presa comunicativa.

Abbiamo così che, seppure con prudenza da parte del premier, viene incardinata una riforma della giustizia lungamente attesa della popolazione (che mai ha capito perché chi accusa e chi giudica debbano essere considerati uguali a differenza di chi difende), o una revisione dell’assetto costituzionale con una forma di rafforzamento del governo. Sono almeno 30 anni che chiunque è in campagna elettorale o al governo (chiunque: centrodestra o centrosinistra) dichiara che l’attuale forma dello stato non consente la governabilità e che è necessario rafforzare la stabilità dei governi, parlando alternativamente (come un pendolo che eternamente oscilla) di premierato o semipresidenzialismo alla francese, per poi, immancabilmente, non fare assolutamente nulla di concreto.

Negli anni abbiamo visto pochissimi tentativi di riforma e tantissime polemiche: chi era favorevole diveniva contrario una volta che passava all’opposizione o semplicemente che una proposta cominciava a prendere corpo; chi proponeva giocava al rialzo e allo scontro consapevole che questo avrebbe portato al tutti contro tutti che è il modo migliore di far naufragare ogni progetto; tutto è stato, fino ad oggi, una gigantesca ammuina (dal falso regolamento della marina borbonica):

«All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa
e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora:
chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio
passann’ tutti p’o stesso pertuso:
chi nun tene nient’ a ffà, s’ aremeni a ‘cca e a ‘ll à”.
N.B.: da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno.»

Ognuno può dare o non dare fiducia al governo; pensare che sia un governo utile o dannoso; che costituisca un cambio radicale o una parentesi breve della politica italiana; ma pare davvero difficile immaginare che questa premier sia una che non cercherà davvero di cambiare le cose. È questa convinzione che, credo, armi la diffidenza che la grande burocrazia sta mostrando verso la figura della Meloni: la diffidenza verso chi potrebbe davvero rompere degli equilibri consolidati e che non servono al paese ma solo ad alcune gerontocratiche caste che hanno immobilizzato il mondo politico e istituzionale romano.

Personalmente spero che questa spinta riformista non si areni come hanno fatto, in passato, tutti quelli che vi hanno messo mano (da destra a sinistra): dal primo Berlusconi (quello del ’92 che, con tutti i limiti e l’approccio naïve, ci aveva provato e fu defenestrato proprio da quella burocrazia che gli fece ben più di uno sgambetto e con cui successivamente si alleò) a una parte della Lega (anch’essa minoritaria anche nel partito stesso) fino al PD che ci provò davvero solo con Renzi che fu però travolto, oltre che dal sistema, anche dalla sua stessa mania di protagonismo (mentre Prodi è sempre stato parte e prodotto di quella stessa burocrazia che infatti lo ha sempre protetto e inneggiato).

I 100 giorni del governo Meloni quindi sono stati, a mio avviso, un impegno a cambiare le cose.

Ci sono stati degli scivoloni: i POS (ridicolo pensare di togliere l’obbligatorietà in un paese che vuole avere anche una importante vocazione turistica) ma anche il decreto rave (fatto male e non certo il problema numero uno del nostro ordinamento) o una iniziale sottovalutazione del radicamento delle ONG straniere nei rispettivi governi nazionali. Ma anche una finanziaria che ha speso tutto quello che era possibile spendere a sostegno di chi aveva bisogno e si è rifiutata di attingere al pozzo nero del disavanzo; una postura internazionale che le sta rapidamente acquistando la fiducia delle principali cancellerie nazionali; un piglio riformista che non può non piacere alla maggioranza della popolazione.

I 100 giorni sono il biglietto da visita di un governo: è nell’interesse di tutta la nazione che le cose cambino e non possiamo che augurarci che sia così.

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Foto da Grande Enceclopedia Norvegese

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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1 commento

  1. Il tuo articolo è ampiamente condivisibile. Purtroppo Giorgia Meloni, che viene, lei sì, dal popolo e si è costruita una carriera politica da sola, non ha al suo fianco un personale politico all’altezza, vedi le recenti vicende legate all’improvvido intervento di Donzelli .E inoltre, come rilevi tu, probabilmente ha contro i grandi commis di stato, e senza di loro governare è difficile, sia a livello nazionale che locale ( l’amministrazione Pardini se ne sta cominciando a rendere conto). Per non parlare della grande stampa e dei principali influencer, da sempre legati al centro sinistra, basta ricordare l’atteggiamento tenuto da Repubblica, dal Corriere, dalla Stampa fino dai tempi della discesa in campo di Silvio Berlusconi che, a sua volta non faceva parte dell’establishment dei salotti buoni, pur essendo un imprenditore di successo. Per questo penso che l’attuale governo non avrà vita facile, nonostante un’opposizione mai così divisa e priva di un vero progetto politico credibile, forse con la sola eccezione di Azione di Calenda e Renzi.

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