10/02 Giorno del Ricordo. Abbiamo ancora il pudore di vergognarci?

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In questi giorni, particolarmente a Lucca e anche sulle colonne di questo giornale, abbiamo parlato molto di questa ricorrenza. E, in gran parte, lo abbiamo fatto per dire che non era collegabile alla Giornata della Memoria. Il che, per certi versi, è perfino ovvio.

Ma per altri versi il Giorno del Ricordo dovrebbe rappresentare la commemorazione di un evento di cui, collettivamente, dovremmo vergognarci non meno che delle leggi razziali. Rappresenta il momento in cui ci volgemmo dall’altra parte rispetto a chi era nostro concittadino. Senza neppure quel senso di umanità e quell’aneddotica, comunque insufficiente a giustificarci, che rivolgemmo ai deportati dai fascisti mandati nei campi di concentramento nazisti.

Per gli esuli dalmata-giuliani non c’erano dimostrazioni di affetto, non c’erano lacrime all’arrivo. Per i morti delle Foibe non c’era commozione. Solo un imbarazzato silenzio se non una chiara accusa di “essersela meritata”.

Dopo più di 70 anni, dopo che il mondo non è più paragonabile a quello che era allora, dopo che tutti coloro che in quel tempo potevano aver preso delle decisioni sono morti, dopo tutto questo sarebbe tempo di guardare le cose con meno passione e più sincerità.

La giustificazione che negli anni si è dato di questo silenzio imbarazzato sono le atrocità commesse dall’esercito italiano-fascista nel territorio tra gli anni venti e la guerra. Atrocità, sia detto senza reticenze, che ci furono veramente.

Ma la storia non comincia nel 1920. Neppure per la Dalmazia. Occorre avere lo sguardo un pochino più ampio per capire (non per giustificare ma per capire) un mondo che era diverso dal nostro; con altri valori, con altre passioni.

Erano gli anni in cui l’Italia aveva trovato una unità politica recente. Anni in cui fette importanti della popolazione e della cultura avevano inseguito questa unità anche con versamento di sangue. Perché le guerre sono spargimento di sangue. Anni in cui il concetto di confine dell’Italia era ancora da definire. E il confine a est era particolarmente difficile: di là non c’era il vuoto di potere ma il potentissimo impero austro-ungarico.

Non è bene dimenticare inoltre che tra la fine dell’ottocento e la Grande Guerra i cittadini di nazionalità italiana che vivevano (da sempre) nei territori in questione, furono oggetto di persecuzione, di attentati, di violenze da parte di squadracce slave coperte, se non attivamente spinte, dal potere costituito (ossia da Vienna). Quest’ultima vedeva come problematica la popolazione italiana dei territori che aveva una forte coesione. E che abitava in aree dalla forte valenza strategica: porti importanti che la marina imperiale voleva tenere vicino a Vienna e lontano dalla componente slava. Alcuni di quelli che morirono nelle Foibe, o vennero deportati/sfollati, erano nati in campi di concentramento austroungarici.

Il contesto prefascista non era quindi una pacifica situazione in cui le popolazioni avevano un buon equilibrio: era una situazione di strisciante (e in certi periodi conclamata) guerra civile in cui gli italiani erano una enclave in oggettiva difficoltà. E gli irredentisti erano sì gente dai toni agitati e che non aveva certo paura di uccidere per arrivare all’obiettivo che si prefiggevano. Ma erano lo stesso tipo di persone agitate e pronte a versare sangue (sia proprio che altrui) che avevano, proprio in questo modo, ottenuto l’unità di Italia, da Garibaldi in giù. Unità che non era voluta, ed anzi era sostanzialmente osteggiata, dal resto del continente (e anche da alcune parti interne al nostro stesso paese) e la cui conquista oggi giustamente festeggiamo ma che non fu ottenuta con dibattiti parlamentari.

Facendo un po’ di ulteriore sforzo di osservazione di quel periodo e dei suoi «valori» vediamo che quello era un tempo in cui gli eserciti erano condotti in guerre e pulizie etniche continuamente. Gli eserciti inglesi e francesi, appena fuori dai confini nazionali, commisero le stesse atrocità, gli stessi genocidi, gli stessi rastrellamenti. Per chi fatica a focalizzare basta ricordare l’India (e non solo) per gli inglesi o l’Africa per i francesi o alcune aree coloniali per gli olandesi o il Sudamerica per spagnoli e portoghesi (anche se qui siamo qualche anno prima)… Certo i tedeschi portarono tutto ad un livello ulteriore e i fascisti li seguirono. Ma il livello ulteriore fu di portare in patria questi metodi, non di inventarli. Di portarli in patria e nel vecchio continente tutto.

I morti oltremare non ci fanno lo stesso effetto di quelli in Polonia. Qui siamo tutti un po’ strabici. Un campo di concentramento non sembra uguale ad un altro, una pulizia etnica, si asserisce implicitamente, non è paragonabile ad un’altra. Forse perché in quella che avvenne in Europa eravamo coinvolti direttamente come anche vittime e di là dal mare solo come carnefici. Forse dovremmo ripensare alla nostra scala di valori…

Ma tornado alla questione dell’Istria quanto detto ci ha mostrato una situazione di tensioni razziali preesistenti e di tensioni per una unità d’Italia non raggiunta pienamente. Situazione su cui una politica senza freni inibitori (quella fascista) agì violentemente per definire (e allargare) un confine che era difficile identificare ma la cui identificazione, in quegli anni, era considerata (e forse lo era davvero) necessaria per il concetto stesso di nazione. È qui che comincia il racconto che tutti conosciamo. Ed è dimenticando quello che c’era prima che abbiamo accettato un imbarazzo che è diventato la clava con cui abbiamo colpito i nostri stessi concittadini.

I profughi dalmata-istriani fuggirono in massa, alla fine della seconda guerra mondiale, perché oggetto prima di una forte spinta ad andarsene (spinta, sia detto con chiarezza, che era fatta di violenze e soprusi) e dopo da una violentissima repressione che cercò anche di impedire che se ne andassero intrappolandone una certa quantità che non era fuggita per tempo.

C’è una specie di strabismo, soprattutto in una storiografia di sinistra: le stesse cose non sono mai le stesse se riguardano una parte del mito del “sol dell’avvenire”. E così nei libri di storia le truppe italiane commisero atrocità (e lo fecero davvero!) ma le truppe di Tito no: loro erano “partigiani”. Termine che indica dei combattenti ai quali si dà la patente di giusti.

Il regime di Tito fu brutale e sanguinario. Lo fu con gli italiani che rimasero o che costrinse a rimanere appena cominciò ad essere chiaro che l’esodo in questione non avrebbe riguardato solo qualche famiglia ma intere città spopolate e forza lavoro qualificata che aveva intenzione di trattenere.

Le dimensioni dell’esodo (e del terrore che attanagliò gli italiani residenti) le possiamo cogliere nelle statistiche della città di Paola: su 31’700 abitanti ne fuggirono 28’058. Quasi il 90% della popolazione. E, in verità, gli anni e decenni seguenti chiarirono che fu sanguinario e inumano anche verso il proprio popolo jugoslavo. E chiunque fosse andato a fare una visita a Trieste prima della caduta del Muro di Berlino ben ricorda. Ben ricorda coloro che di notte cercavano di attraversare il confine per trovare rifugio politico. E la povertà che era presente oltre confine. E difficilmente si può dimenticare il modo in cui la Jugoslavia è letteralmente esplosa in guerra civile dopo che il tallone dittatoriale del regime titoista è caduto.

Ma a parte tutto questo, a parte il fatto che il sole dell’avvenire che sorse oltre il nostro fragile confine orientale aveva portato giorni di sangue e miseria a chi rimase intrappolato nelle maglie del regime, ciò che più di tutto dobbiamo ricordare oggi è la vergognosa accoglienza che riservammo a chi scappava dall’incubo.

A Lucca, a partire dall’inizio del ’47, «accogliemmo» circa 1’000 persone che erano fuggite. Su un esodo sulle cui stime gli storici si dividono ma che viene valutata tra i 200’000 e i 350’000 mila concittadini. Oltre i morti.

A Lucca li «ospitammo» in campi profughi presso la manifattura tabacchi, in quello che era stato un ospedale della CRI. Poi, quando ne arrivarono altri, furono stipati nel complesso del Real Collegio. Dove abitarono in condizioni che le cronache di allora definiscono «drammatiche» e che non facciamo fatica a credere fossero anche peggiori. Sfollati italiani che furono derisi, rifiutati, accusati di essere fascisti, giudicati e solo faticosamente accettati dalla nostra comunità che non fu neppure lontanamente una delle più inospitali, anzi!

A Lucca la triste situazione dei profughi si trascinò fino al 1953 anno in cui cominciarono ad essere assegnate le case popolari agli sfollati e si concluse nel 1956, anno di chiusura del CRP (Campo Raccolta Profughi secondo la sigla con cui veniva indicato allora) del Reali Collegio. Circa 10 anni di ingiustizie sotto i nostri occhi.

E, per completezza, va ricordato che anche quell’assegnazione fu faticosa: osteggiata dal PCI (più in città “rosse” che da noi in verità) che vi vedeva un’iniqua azione contro i “veri proletari” e un furto di posti di lavoro, fu condotta con lentezza e con molti pregiudizi.

A ricordare come dovremmo pensare a quel periodo, ai soprusi che subirono in patria questi nostri concittadini, basta ricordare il «Treno della Vergogna» (la cui storia potete trovare qui) e questo brano tratto dall’Unità del 30 novembre del 1946:

«Ancora si parla di "profughi"': altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.. Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e la offendono con la loro presenza e con l'ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d'origine perché temono d'incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati anche coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà nazionale coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con lo incendio e l'assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli. Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte.»

Andrea Bicocchi @Andrea_Bicocchi

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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1 commento

  1. Caro Andrea, il tuo articolo ha il merito di ricostruire una vicenda tragica per la nostra storia e di contestualizzarla in un ambito più vasto.
    Pure noi italiani abbiamo fatto uso delle cavità carsiche per uccidere chi si opponeva alla nostra amministrazione come, purtroppo, è accaduto nella Provincia Lubiana nel periodo dell’occupazione dell’attuale Slovenia.
    Ciò detto per amore della verità, non possiamo però scordare la tragedia dei nostri connazionali costretti ad un esodo forzato per non perdere la propria vita. Perseguitati solo perchè italiani.
    Questo giorno del Ricordo come il giorno della Memoria, deve essere vissuto come monito perenne, ed estremamente attuale vista la guerra europea tra Russia e Ucraina, contro ogni guerra.
    L’art. 11 della nostra Costituzione impone al nostro Paese il Ripudio della guerra come mezzo di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo risoluzione delle controversie internazionali.
    Siamo degni di questo principio, promuovendo le condizioni necessarie per la realizzazione di una vera giustizia tra le genti, perchè senza giustizia non ci può essere vera pace.

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