
Questa è una storia di guerra, una storia di montagna, una storia di alpinisti italiani, prigionieri di guerra!
Una storia che ha inizio nel 1941, quando a Roma, dal balconcino di Palazzo Venezia scocca “L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia…”
Subito dopo questa trombonata gli inglesi nella notte stessa catturano tutti gli italiani nei loro territori e li ingabbiarono.
“Collar the lot”, acciuffateli tutti, per il colletto e catturateli. Questo il perentorio ordine di Churchill riguardo alla comunità italiana in Gran Bretagna e nei territori del Commonwealth; più o meno facemmo la stessa anche noi… e anche le nazioni; qualcuna esagerò anche un pò…
Naturalmente questa delicatezza proseguiva anche nel corso della guerra e fu così che come nel film con Alberto Sordi e David Niven “I due nemici”, quando gli inglesi entrano e conquistano Addis Abeba nel 1941, catturano tutti gli italiani che vi trovano. Tra questi un funzionario italiano di Trieste, Felice Benuzzo sportivissimo, nuotatore, alpinista provetto.
Benuzzi diventa un “P.O.W.” un “Prisioner of War”; gli va molto meglio di altri sfortunati soldati italiani, che, in seguito alle drammatiche alternanze della Storia, verranno catturati dai tedeschi diventando invece degli “I.M.I” cioè degli “Internati Militari Italiani”, ma questa è un’altra storia e la racconteremo più avanti.

Lo imprigionano a Nanyuki, un campo di prigionia alle pendici del Monte Kenia nella parte nord occidentale del paese. Preciso sulla linea dell’Equatore.
Insieme ad altri sfortunati prigionieri italiani. Vita grima, poche razioni di cibo, vessati e maltrattati dai carcerieri. Così è la vita.
Nel campo fa conoscenza con altri due prigionieri, Giovanni Balletto detto “Giuan” un medico e abile alpinista anche lui, e il Tenente Marco della “P.A.I”. la “Polizia dell’Africa Italiana”. Minimo comun multiplo tra loro, una sfegatata passione per l’alpinismo!
E un senso di italianità che sfiora l’incoscienza.
Passa un anno e mezzo… una sera dopo un temporale estivo, si apre la visibilità e la seconda vetta più alta dell’Africa, dopo il Killimangiaro è lì davanti a loro. Il Monte Kenya, 5189 m.s.l.m.
“Lì davanti a loro” è un eufemismo in un paese dove le distanze si misurano in giorni di viaggio.
Diciamo che lo vedono bene in lontananza, a 30 km.

Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press
Il richiamo della comune passione alpinistica è forte!
I tre decidono di tentare di scalarlo! E di piantarci una bandiera Tricolore in cima!
Nel frattempo però il Tenente della P.A.I. , Marco, viene trasferito.
Occorre un terzo uomo per riuscire nel tentativo. Individuano quindi tale Vincenzo Barsotti, competenze alpinistiche nessune.
Ma viene da Camaiore, Lucca, ed è un fegataccio, coraggioso e che non si spaventa. Vuol tentare anche lui. È entusiasta.
Abile arruolato nella folle impresa.
Adeso comincia l’operazione: la preparazione meticolosa, curata nei particolari, la ricerca del cibo, dell’attrezzatura, della cartografia.
Possibilità quasi nulle di procurarsele, ma quando gli italiani si mettono in mente una cosa, anche folle, riescono.
La determinazione, la voglia di riuscire nella folle sfida è una potentissima spinta motivazionale. Pian piano grazie al cibo che arriva nei pacchi dalle famiglie tramite la Croce Rossa Internazionale (privilegio che invece gli I.M.I. non avranno proprio per la loro qualifica di “internati” e non di “prigionieri di guerra”…), a quello che rubano alla mensa, a quello scambiato con i compagni di prigionia in cambio di sigarette, mettono da parte quanto necessario per sopravvivere nella impresa.
Alcuni prigionieri sarti cuciono dei vestiti imbottiti adatti a sopravvivere al freddo; vengono realizzati dei rudimentali scarponi con la robusta corteccia di piante locali, due operai civili che lavorano al campo lasciano per un attimo due martelli incustoditi; diventano due piccozze. Dei tondini di ferro per il cemento armato diventano rudimentali ramponi. Qualcuno ha conservato un Tricolore dopo la cattura. Alcune lattine colorate diventeranno delle frecce indicatrici per il ritorno; saranno utilissime! Le reti dei materassi diventano corde, e una pubblicità su una carta avvolgente una lattina di carne, che riproduce il versante Nord del monte, diventa la loro unica cartografia.

Foto: shorturl.at/etz19
Alcune notizie raccolte da ritagli di giornali e da una vecchia pubblicazione locale sono le uniche fonti di informazione. Un lavoro certosino, paziente, ma incessante.
Si arriva al 24 gennaio 1943. Domenica. La data è scelta perché la domenica i soldati inglesi non fanno l’adunata e il controllo pomeridiano, lasciando la sorveglianza ai soldati locali. Le ricerche cominceranno quindi al mattino successivo garantendo almeno un vantaggio di 12 ore di tempo.
Si parte!
A mezzogiorno, quando le guardie sono a pranzo Benuzzi, Balletto e Barsotti con una chiave procurata grazie a una sbadataggine di una guardia, aprono il cancello e si danno alla fuga; non prima di aver lasciato un biglietto alle autorità del campo, precisando che saranno di ritorno tra due settimane! La spedizione è cominciata!
Durerà un poco di più, 17 giorni.
17 giorni di libertà! Impossibile la fuga, il primo paese neutrale è il Mozambico…a 1000 km,. Troppo distante.
Benuzzi scriverà un libro su questa avventura, che sarà tradotto in più lingue: “Un picnic sul Monte Kenia.”

Barsotti si è ammalato nel frattempo. Ma insiste per partire con loro. Benuzzi gli ordina di non tossire!
I nostri tre arditi viaggiano solo di notte, orientandosi con le stelle e seguendo la traccia di una ferrovia che punta verso il loro obiettivo. Incontrano di tutto: un leopardo, un rinoceronte e anche un elefante che si abbevera vicino al bivacco; ma loro continuano. Fino a quota 4.200 metri.
Nel frattempo Barsotti è peggiorato, ha la febbre e Balletto, che è medico gli ordina di non proseguire: gestirà il campo-base, da dove gli altri due tenteranno l’ultima scalata.
La prima prova viene fatta il 4 febbraio; tentano la cima più alta delle tre: il “Batian”. Benuzzi e Balletto partono con il materiale per l’ultimo tratto, il più impegnativo. Per fortuna Benuzzi, esperto alpinista già in Italia, colloca nei punti critici le frecce di lamiera colorata che saranno indispensabili per il ritorno, quando un banco di nebbia renderà impossibile vedere la traccia seguita!
Il tentativo fallisce a causa della forte nebbia e nella discesa consumano un ultimo pasto frugale messo da parte; uva sultanina inviata da casa nei pacchi dono e religiosamente conservata, e un pezzo di toffè, una specie di barretta di caramello impastato con pezzi di mandorle: viene da sorridere pensando all’incredibile sviluppo tecno-alimentare di oggi.
Raggiunto il campo-base subentra un pò di scoramento e sconforto, le razioni sono ormai ridotte. La stanchezza fisica è fortissima.
Dopo un giorno di riposo decidono di ritentare. Cambiano la cima: attaccheranno il “Picco Lenana “ , 4985 m. «al fine di piantare lì la nostra bandiera».
Preparano con cura la razione da scalata: …qualche pezzo di cioccolata, toffè, un pugno di uva sultanina e di zucchero, riso e burro (poco di tutto), dieci biscotti. «Sulla carta – ricorderà Benuzzi – sembrava una marea di roba, ma in realtà l’avremmo divorata in un solo pasto e invece doveva durarci per almeno quattro giorni».
Partono alle 01,50 del 6 febbraio 1943, con un preciso obiettivo primario: raggiungere la vetta entro le 10 del mattino, perchécome è successo nel precedente tentativo, a quell’ora si alza la nebbia.
Procedono a tappe forzate, alle 8 una sosta per consumare uva sultanina e poco cioccolato. Poi si riparte.
E con la forza dei disperati alle 10.05 sono in vetta al “Picco Lenana!”
Missione compiuta.
Scriverà il Benuzzi: «Un’infinita pace sotto un cielo che pareva di velluto scuro. Ai nostri piedi, molto più a valle l’intero Paese che sembrava emanare uno strano bagliore.”
Otto mesi di preparazione dura, sacrifici, inganni, sotterfugi, segretezza assoluta.
Due settimane di marce forzate, carichi come muli, sfidando pericoli e le ricerche.
Ma ne era valsa la pena!».
Fissata la bandiera Tricolore i due lasciano la vetta.
Raggiungono campo-base e recuperano Barsotti che li attende trepidante.
Felicità, abbracci, commozione, ma il tempo stringe. Occorre ripartire.
Lasciano una bottiglia sigillata con un messaggio firmato dai tre e la data, per segnare l’impresa. Si torna al campo di prigionia di Nanyuki, dove giungono nella notte fra il 9 e 10 febbraio.
Riescono a rientrare senza farsi vedere, e dopo una notte di riposo al mattino successivo puliti, sbarbati, con i capelli tagliati e le scarpe pulite, camicia e calzoncini in ordine, con l’aria più candida e trionfante salutano il comandante inglese: “Good morning”».
Che non la prende subito bene.
28 giorni di cella di rigore, ai tre prigionieri-alpinisti, ma… dopo un po’ di tempo il comandante apprezzando la loro impresa sportiva e il loro coraggio li grazia.
Diventano dei miti per i commilitoni imprigionati e agli inglesi scornacchiati e umiliati non resta che andare a recuperare la bandiera italiana e sostituirla con la Union Jack, non prima di aver trovato la bottiglia che dimostra la veridicità della impresa!
Il 20 febbraio la notizia esce dal campo… il quotidiano di Nairobi “East African Standard” titola: “Escaped italians prisoners fled to Mount Kenya!”.
Successivamente nel 1948 gli inglesi doneranno il Tricolore recuperato dal Mountain Club of East Africa al Club Alpino di Milano. Purtroppo nel tempo è andato perso… incuria o forse rubato! Maledetti!
La notizia ormai fa il giro del mondo e arriva anche in Italia. Sono degli eroi!
Poi la storia volge al termine; Benuzzi verrà rilasciato nel ’46 e scriverà nel 1947 il libro che racconta questa impresa: No Picnic on Mount Kenya; verrà tradotto in italiano: Fuga sul Kenya, 17 giorni di libertà, poi sarò tradotto anche in tedesco, in svedese in finlandese e perfino in coreano. Faranno anche un film “The Ascent”.
Una impresa epica! Di valore, coraggio, determinazione.
Una impresa Italiana.
Nel 1948 Benuzzi diventerà un diplomatico e tornerà a rivedere quei luoghi. La moglie Stefania racconterà che: «La guerra, il campo di prigionia, il monte furono tre elementi decisivi nella sua vita. Il desiderio di essere un individuo indipendente e l’amore per la libertà, lo spinsero a intraprendere questa rischiosa avventura. Da allora, ovunque noi eravamo, anche il monte Kenya era lì con noi”
Il Dottor Balletto verrà colpito dalla più comune delle malattie, il “Mal d’Africa” e rimarrà lì, a gestire una attività assistenziale in un convalescenziario.
Non abbiamo più notizie del camaiorese Barsotti.
Però c’era.
