Povera Italia – Dalla trattativa stato-mafia al soccorso galante del clan.

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Cominciamo una nuova rubrica in cui ci occuperemo delle notizie folli che, di volta in volta, funestano le nostre cronache.

Per cominciare ci occuperemo di una notizia che viene da Bari.

Un anno fa, due vigilesse del comune erano state licenziate in tronco. Motivo di tale decisione?

Un’offesa subita.

Più precisamente le due vigilesse avevano fatto una multa per un semaforo rosso ignorato. Il multato le aveva offese. A loro quelle offese non erano andate giù e, non potendo trovare un modo diverso di gestire questa sofferenza morale, avevano richiesto l’intervento di un fedelissimo del clan mafioso Parisi, Fabio Fiore (ex autista del boss di Japigia).

Sfortunatamente (per loro) la cosa era venuta fuori nell’ambito di un’inchiesta che ha portato all’esecuzione di 130 misure cautelari per presunti episodi di voto di scambio politico-mafioso alle elezioni del 2019.

Brutta storia.

Naturalmente chiedere voti alla mafia è una cosa che non si può fare. Ci sono delle leggi che lo vietano: da cui il giusto corredo di indignazione popolare contro i politici e l’inchiesta che ha avviato il nostro caso.

Potrebbe, un lettore alieno, chiedersi se davvero servisse una legge che dice che non si può chiedere ad organizzazioni illegali di agire come comitati elettorali a favore di un soggetto politico: non dovrebbe essere sufficiente il buon senso?

La risposta è che servivano tali leggi perché il pensiero italico è un po’ distorto: se chiedi il voto alla mafia e vinci, anziché essere penalizzato dal pensiero comune vieni premiato per la tua furbizia. Se invece perdi la censura morale è più facile.

Il che ci porterebbe alla conclusione che, per transitività, chiedere alla mafia qualsivoglia forma di favore sia sbagliato.

Conclusione errata, come vedremo più innanzi.

Il nostro alieno potrebbe perfino pensare che sia difficilmente compatibile con la funzione di garante dell’ordine pubblico il fatto di rivolgersi ad esponenti della mafia per fare rispettare il proprio onore. Che, cioè, sia sbagliato che a chiedere l’aiuto di un mafioso per fare rispettare il proprio onore leso fosse, che so, un imprenditore offeso da una altro; ma che sarebbe un po’ peggio se a farlo sia un rappresentante di quell’ordine pubblico a cui ci si dovrebbe rivolgere se una di codeste associazioni illegali (volgarmente definite mafie) ti dovesse venire a disturbare.

Probabilmente così la pensavano anche al Comune di Bari quando hanno pensato che fosse necessario licenziare le due vigilesse.

Ma così non la pensano i giudici del tribunale del lavoro e, per estensione, così non la pensa la legge. Questi infatti hanno rilevato che i contatti telefonici con un soggetto in “odor di mafia” non costituisca illecito rapporto con soggetti estranei all’amministrazione. Inoltre hanno rilevato che, alla fin fine, le vigilesse hanno costantemente emesso le multe che costituiscono l’oggetto della loro attività e quindi le ricorrenti (cioè le vigilesse che hanno fatto ricorso contro il comune che le ha licenziate) hanno adempiuto al loro dovere d’ufficio rendendo perciò illegittimo il licenziamento. Conseguentemente il suddetto tribunale ha disposto il reintegro delle vigilesse che avevano subito il torto. Che a questo punto possiamo considerare duplice: uno con le offese subite durante l’esercizio del loro lavoro e l’altro con il licenziamento.

Se le norme giuslavoriste fossero applicabili anche alla politica, il processo sulla trattativa stato mafia non ci sarebbe stato: forse il tribunale del lavoro avrebbe reintegrato il povero Andreotti nel ruolo di primo ministro.

Image by Alexa from Pixabay

Andrea Bicocchi
Andrea Bicocchi
Imprenditore, editore de "Lo Schermo", volontario. Mi piace approfondire le cose e ho un'insana passione per tutto quello che è tecnologia e innovazione. Sono anche convinto che la comunità in cui viviamo abbia bisogno dell'impegno e del lavoro di tutti e di ciascuno. Il mio impegno nel lavoro, nel sociale e ne Lo Schermo, riflettono questa mia visione del mondo.

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