Mille miliardi. O, per dirla con la grandezza che gli anglosassoni amano, un trilione. È una cifra che fatichiamo a immaginare, che sfora i confini della calcolatrice mentale di chiunque non si occupi di debiti sovrani o di pil continentali. Eppure, è questa la cifra che Tesla ha messo sul piatto per Elon Musk. Un “premio” – se così vogliamo chiamarlo – che ha fatto gridare allo scandalo, scatenando i guardiani della morale economica e i sindacati di mezzo mondo.
“Osceno”, “immorale”, “uno schiaffo alla miseria”. Le reazioni sono scattate immediate e graffianti. Come si può giustificare che un singolo essere umano possa aspirare a un compenso superiore al PIL di nazioni come la Svizzera o l’Arabia Saudita? La risposta facile, quella che riempie le piazze e i feed dei social network, è che non si può. Che è il sintomo terminale di un capitalismo malato. La conferma della tesi veterocomunista di un sistema che deve implodere per la sua intrinseca immoralità.
Ma se provassimo a guardare oltre l’indignazione da titolo, scopriremmo che la realtà è radicalmente diversa. E la tesi che vi propongo qui è impopolare: il piano di Musk non è immorale. Esattamente l’opposto di quello che accade nelle stanze dei bottoni della vecchia industria, quella dei “manager pop ultra-stipendiati” dai dubbi risultati.
Per capire l’abisso che separa Musk dai suoi colleghi, dobbiamo prima guardare altrove. Prendiamo Tavares, l’uomo al comando di Stellantis fino a poco tempo fa. Nel 2023, il manager portoghese ha portato a casa un pacchetto retributivo di circa 36,5 milioni di euro. Una cifra mostruosa per un comune mortale, certo, ma “spiccioli” rispetto al trilione di Musk. Dov’è la differenza? La differenza è nella natura stessa del denaro.
Il compenso di Tavares (e di molti CEO del suo calibro, da Tim Cook a Mary Barra) è, in fin dei conti, il pagamento di una prestazione professionale. È il prezzo del suo tempo, della sua esperienza, del suo “stare lì”. Certo, ci sono i bonus, ci sono gli incentivi, ma c’è anche una base fissa multimilionaria e garanzie corpose. Tavares incassa i suoi milioni anche mentre firma la cassa integrazione per migliaia di operai a Mirafiori o mentre i piazzali si riempiono di auto invendute. In effetti incassa un corposo bonus per essere licenziato. Il suo compenso è un costo certo per l’azienda, un prelievo dalle casse che avviene a prescindere dal fatto che l’azienda stia creando valore esponenziale o stia semplicemente galleggiando. E persino quando l’azienda ha perso valore lui ha continuato a percepire grossissime cifre. È il salario del funzionario di lusso: garantito, blindato, slegato dal rischio esistenziale dell’impresa. Forse giustificabile ma comunque assente da significativo rischio.
Ora giriamo lo sguardo verso il Texas, verso il “Piano di Performance CEO 2025” analizzato nel dettaglio proprio sulle colonne di Lo Schermo (in un articolo recente che vi invito a leggere: “Analisi del Piano di Performance CEO 2025 di Tesla: Semplicemente il più grande piano di incentivazione di sempre“). Quello che emerge da quell’analisi non è un contratto di lavoro, è una scommessa sulla capacità di un imprenditore.
Elon Musk, per guidare Tesla nei prossimi dieci anni, non prenderà un dollaro di stipendio. Zero. Nessun fisso mensile, nessun bonus natalizio, nessuna garanzia. Il suo conto in banca non vedrà un centesimo provenire dalle casse di Tesla a meno che non riesca a compiere un miracolo economico.
Come spiega l’analisi di Lo Schermo, il piano è strutturato su 12 tranche, ognuna delle quali si sblocca solo se si verificano contemporaneamente due condizioni (il cosiddetto “doppio vincolo”): un obiettivo di capitalizzazione di mercato e un obiettivo operativo (come l’EBITDA o la produzione di milioni di Robotaxi).
Attenzione ai numeri, perché è qui che la “moralità” cambia segno. Per sbloccare l’intero pacchetto da 1000 miliardi, Musk deve portare la capitalizzazione di Tesla a 8.500 miliardi di dollari (oggi viaggia intorno ai 7-800 miliardi). Deve moltiplicare il valore dell’azienda per dieci. Deve trasformare Tesla nella compagnia più grande della storia umana, superando la somma di Apple e Microsoft messe insieme.
Se Musk “vince” i suoi 1000 miliardi, non li sottrae agli azionisti o ai dipendenti. Li crea dal nulla. Per intascare quella cifra, deve averne generati altri 7.500 per gli investitori, inclusi i fondi pensione dei lavoratori americani. È questa la differenza ontologica tra il manager e l’imprenditore. Il manager (Tavares) è un professionista che viene pagato per il suo lavoro; l’imprenditore (Musk) viene ricompensato solo se crea nuova ricchezza che prima non esisteva.
Parlare di “stipendio” per Musk è un errore semantico. Quello non è un compenso per il tempo impiegato. È la certificazione del valore imprenditoriale. Musk viene pagato esclusivamente in quote azionarie (che peraltro è obbligato a non vendere per anni dopo averle ricevute). Il suo destino è legato a doppio filo a quello dell’azienda: se Tesla fallisce gli obiettivi, Musk ha lavorato gratis per un decennio. Quale altro CEO accetterebbe un rischio simile? Tavares avrebbe accettato di guidare Stellantis con stipendio zero e pagamento solo in caso di raddoppio del valore delle azioni? Ci permettiamo di sospettare di no.
C’è poi un aspetto che i critici ignorano: la natura degli obiettivi. Il piano analizzato da Lo Schermo parla di obiettivi operativi oltre che di capitalizzazione. E parla di traguardi operativi che oggi sembrano fantascienza: 1 milione di robot umanoidi Optimus, 1 milione di Robotaxi, e, soprattutto, un EBITDA di 400 miliardi. Sono quelli che nel gergo della Silicon Valley chiamano “Mars-shots”. Se questi obiettivi vengono raggiunti, non stiamo parlando solo di un’azienda che va bene, stiamo parlando di una rivoluzione tecnologica che cambia il mondo.
Giudicare immorale questo compenso equivale a giudicare immorale il concetto stesso di proprietà d’impresa. Sarebbe come dire a un fondatore, dopo che ha costruito un impero partendo dal garage di casa, che non ha diritto a possederne una quota perché “vale troppo”. Ma il valore non è una torta pronta da mangiare; è una torta che l’imprenditore deve preparare e far lievitare. Se la torta non viene, lui non mangia. Se la torta diventa grande come uno stadio, la sua fetta sarà gigantesca, ma tutti gli altri commensali avranno mangiato a sazietà.
Il vero scandalo, forse, non è il trilione potenziale di Musk, ma i milioni certi di chi gestisce il declino. È immorale il “paracadute d’oro” di chi lascia macerie (pensiamo alle tante buonuscite milionarie di manager che hanno affossato aziende storiche), non il premio stratosferico di chi costruisce cattedrali nel deserto.
In definitiva, il pacchetto di Tesla non è un assegno in bianco. È un contratto di performance così estremo che nessun manager sano di mente lo firmerebbe. È un contratto da imprenditore visionario o folle. Se tra dieci anni Musk sarà l’uomo da 1000 miliardi, (e anche di più visto il valore che avrebbero le azioni che già oggi possiede) significherà che Tesla sarà l’azienda da 8 trilioni. E sarà l’azienda che vale 8 trilioni non solo per una moda spinta dal marchio Musk ma per dei risultati talmente incredibili da essere sufficienti a giustificare una tale stratosferica valutazione. E in quel caso, sfido chiunque, azionista o dipendente con stock option, a lamentarsi dell’immoralità di quell’assegno.
Fino ad allora, Musk sta lavorando gratis. E questo, in un mondo di manager iper-pagati per risultati mediocri, è forse la lezione più morale di tutte.
