Giovani nella tempesta #3 – con Giuseppe Petrini, tra esperienze e pensieri

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(Leggi anche: Giovani nella tempesta #1 e Giovani nella tempesta #2)

Lo scorso 9 ottobre si è tenuto un nuovo appuntamento del ciclo “Di lunedì, il secondo del mese”, la serie di incontri mensili organizzata da Cnv. È stata l’occasione per una nuova tappa del viaggio nel mondo dei giovani grazie alla presenza di Giuseppe Petrini, educatore professionale, mediatore familiare, formatore, docente dell’Università di Firenze. È stato responsabile della comunità per minori presso il Rifugio Carlo del Prete e da qualche tempo si occupa, insieme al dott. Paolo Gaddini, del rilancio del Centro Affidi della Piana di Lucca.

Petrini ama definirsi “un artigiano dell’educazione per i giovani. Non a caso, anche nell’ambito accademico mi occupo prevalentemente dei laboratori. Porto delle riflessioni, non delle risposte perché è difficile dare risposte in questo ambito”.

Petrini ama le citazioni e nella sua presentazione ne fa buon uso: “Non importa chi sei ma ciò che fai (Batman) – così esordisce – nello stare con le persone giovani, ci si deve portare dietro tutto quello che si è, ci si deve mettere tutto quello che abbiamo”.

Per parlare di pedagogia, per vestire i panni dell’educatore, è importante guardare al quadro di insieme ed avere la pazienza di portare avanti un lavoro complesso, che richiede i suoi tempi ed in cui tutti i particolari sono importanti. “Un caro amico diceva che tutti i giorni dobbiamo cercare lo straordinario nell’ordinario e farlo durare. Non si lavora sull’emergenza. Ad esempio: i nuovi provvedimenti del Governo sull’emergenza baby gang. Da operatore del settore non posso negare che si debba intervenire, ma se interveniamo così facciamo passare il messaggio che si possa fare solo così, che ci sia solo l’emergenza e che risolta quella si risolva il problema. Non è così.” Petrini invita a non partire dai problemi, ma dai bisogni. Altrimenti si aggrediscono sempre e solo i problemi, vedi la questione delle baby gang. “Ma se anche militarizzassimo le strade, non risolveremmo il disagio”.

La verità è che la percezione che i giovani hanno di sé stessi è diversa da quella che abbiamo noi di loro: questo è un fenomeno osservabile nella pratica ed un educatore deve tenerlo sempre ben presente. Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile italiana, diceva che di adolescenza ci ammaliamo tutti, ma dopo si guarisce”. Le emozioni influenzano i processi cognitivi, l’empatia è un fondamento pedagogico. “Il nostro comportamento dipende dalle nostre idee, ma le nostre idee dipendono dalle nostre conoscenze e questo significa che in sostanza noi ci comportiamo sulla base di ciò che conosciamo – un’altra citazione amata da Petrini – pensate che l’ha detto Dante Volpi, che era un sindacalista della Cantoni Cucirini Coats che si occupava di sicurezza sui luoghi di lavoro!”

Approcciarsi al mondo giovanile è un po’ come affrontare un labirinto. Quindi fa bene approfondire. “Coi giovani, partiamo dal darci dei limiti e non dal dare delle soluzioni. Il primo limite che dobbiamo imporci è evitare di interpretare riduttivamente la relazione solo come “informazione”: ti dico io quello che devi sapere. Evitiamo poi di dire come si devono fare le cose senza farle insieme con loro. Oggi l’adulto non accompagna più il giovane nel suo “rito di passaggio” all’età adulta. Non a caso, in molte culture questi riti sono invece tradizionalmente consolidati e canonizzati, anche in modo estremo. Forse è per questo che molti giovani oggi cercano il rischio: erano rischiosi anche i riti di passaggio. In fondo, molta parte della questione si riassume nella mancanza di tempo. L’educatore non può non avere tempo”.

Questo punto per Petrini è ineludibile. Sulla questione del tempo dell’educazione, invita a non farci sconti: “la teoria secondo la quale è decisiva la qualità del tempo che si passa con i giovani più che la quantità in sé è una patetica storia che gli adulti, in tutt’altro affaccendati, si sono raccontati a loro giustificazione”.

L’esposizione di Petrini è condotta sugli esempi, sulla pratica e sull’esperienza. Sembra evitare volutamente di affrontare in modo diretto temi di scottante attualità sociale come la crisi di un sistema di valori condiviso, la mancanza di impegno, le fragilità e le devianze nel mondo giovanile. Ma non sono temi rimossi, restano anzi sullo sfondo di tutta la riflessione, come una domanda aperta che riesplode angosciosa quando irrompono i fatti di cronaca. “E noi cosa facciamo? Ci informiamo, guardiamo la televisione, condividiamo il dispiacere, e informandoci ci sentiamo al sicuro dalla nostra parte del pianeta.” La riflessione di Petrini si concentra sul metodo, sulla prassi: sul modo in cui l’adulto si conquista il ruolo che lo definisce come educatore: “l’autorevolezza è un elemento educativo fondamentale, ma si costruisce nel tempo: e questo vale per il genitore, per la scuola, per lo Stato. Non basta l’autorità”.

Da ultimo Petrini ammonisce che c’è un altro mondo che ha a che fare con i giovani, e ha molti più mezzi di noi. “Quali sono i nostri competitor? Chi sceglie per noi, alle spalle dei nostri giovani? Il mercato. Il mercato si occupa benissimo dei giovani, da quando nascono a quando diventano uomini. Ed ha molte più risorse dell’educatore”. La comunicazione del mercato (il marketing) batte sui tasti sensibili dei giovani, usa tecniche raffinate per proporre modelli di vita favorevoli ai propri scopi, ma si tratta in definitiva di modelli di consumo. Il problema nasce quando i modelli offerti non sono fruttiferi, non hanno la capacità di generare una visione positiva. Per Petrini questo tema è direttamente collegato con il disagio dei giovani: dal futuro-promessa al futuro-minaccia. “Non è un disagio psicologico (personale) è un disagio culturale (di tutti)”. E sceglie ancora una volta una citazione, tratta da L’ospite inquietante (2008) diUmberto Galimberti: “la vita non riesce più a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità”.

Ecco dunque riaffiorare finalmente la questione valoriale: al fondo di tutto resta il messaggio e il modello che sappiamo e vogliamo offrire ai giovani, accompagnandoli nella scoperta. Una scoperta che devono però poter compiere in modo autonomo, con i loro mezzi e tempi.

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