“Ero il numero 11mila 512”, a 101 anni Dante Unti ricorda la prigionia nel campo di lavoro di Stablack

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Nel suo libro si legge:Sono cose che urtano il sangue, cose che non si possano raccontare”. E invece il sarto di Rughi (Porcari), Dante Unti, a quei ricordi ha dato voce ancora una volta oggi (27 gennaio), all’età di 101 anni, per la Giornata della Memoria. Perché si continui a lottare per la libertà. Perché mai più un uomo e una donna liberi muoiano in nome di un’ideologia.

Mussolini fu deposto poco tempo prima. Era il 25 luglio 1943 quando il re Vittorio Emanuele III nominò capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio. Fu lui che incaricò segretamente il generale Castellano di firmare l’armistizio di Cassabile con l’ americano Bedell Smith, rappresentante del generale Eisenhower. A ‘carte firmate’, l’8 settembre di quello stesso anno, Badoglio lesse ai microfoni il suo proclama: “[…]Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo […]”.

Quel giorno – racconta Dante – con l’esercito eravamo in un paesino sul mare, vicino Ragusa. Avevamo una radiolina per ascoltare la musica e le notizie. La tenevamo nascosta perché nella nostra divisione c’erano alcuni soldati del regime che ci tenevano sotto controllo. Rientrai da solo in magazzino, mentre gli altri erano in pineta e accesi la radio. Sentii dire che le truppe italiane erano a disposizione degli americani. Corsi a dirlo al maresciallo, credevo che la guerra fosse finita. Ero felice. Ma lui mi disse di stare zitto e dopo qualche ora si seppe che i tedeschi stavano avanzando contro di noi. Nessuno volle arrendersi alle loro truppe. Dopo due giorni di controffensiva, di morte davanti ai nostri occhi, divenimmo prigionieri. Ci deportarono nel campo di lavoro di Stablack. Lì è dove ho smesso di esistere”.

Di lavoro faceva il sarto, poi, dopo la chiamata della leva obbligatoria nel 1939, da soldato prese parte al conflitto in Jugoslavia. Fu tra i contingenti che, a Ragusa, dopo l’armistizio del 1943, scelsero la libertà e si ribellarono militarmente ai tedeschi, all’alleanza. Fu internato nel campo di Stablack, nei pressi di Konigsberg, attuale Kaliningrad. Furono circa trentamila quelli come lui, deportati dalla Jugoslavia nei campi di lavoro nazisti.

Dopo un viaggio in treno lunghissimo, stipati come merce dentro un carro-bestiame, ci denudarono e depilarono. Facevano l’appello. Non avevo più un’identità – continua il racconto -. Ero un numero, l’11mila 512. Imparai a riconoscerne la pronuncia tedesca. Ci picchiavano, il cibo non bastava mai, si lavorava per ore intere, anche al freddo, tra la neve. La notte ci obbligavano a fare ginnastica nudi davanti a loro. La baracca dove dormivamo era circondata da un reticolato ma avevamo trovato un modo per evadere e di notte uscivamo a cercare il cibo. Si raspava nei bidoni, per terra, mangiando qualsiasi cosa avesse una consistenza commestibile. Una volta siamo usciti in campagna a cercare le patate, di nascosto, ma i tedeschi fecero l’appello. Io appena rientrato mi chiusi in bagno e quando mi trovarono dissi che ero rimasto li tutto il tempo, così mi rimandarono in baracca e scampai alle botte e alla punizione. In molti sono morti, stremati, io per fortuna sono riuscito a sopravvivere e tornare a casa alla fine della guerra”.

Nel campo di Stablack si lavorava per più di dodici ore al giorno, in condizioni igieniche pessime e al freddo. Dormendo dentro baracche diroccate. A Konigsberg Dante e molti altri uomini hanno attraversato l’inferno, la paura, il dolore, l’umiliazione. Non più uomini o prigionieri di guerra, solo forze lavoro da sfruttare. Era la primavera del 1945 quando i sopravvissuti furono liberati e riuscirono a tornare a casa.

L’unica cosa che ci ha permesso di esistere e resistere ancora – ricorda Dante – è stata la forza del pensiero. Inoltre, eravamo un gruppo compatto e alcuni capi tedeschi spesso ci risparmiavano alla violenza perché un nostro compagno sapeva intrattenerli con alcune filastrocche e una di queste diceva ‘Il più brigante dell’Italia è Mussolini’. Allora, rallegrati da queste parole, magari ci regalavano un pezzo di pane. Altre volte invece, se il testo delle canzoni non piaceva, ci prendevano a legnate o a colpi di fucile”.

Conosciuto da tutti come Il sarto di Rughi, ha lasciato scritta la sua storia nel libro dall’omonimo titolo. Un racconto scritto a quattro mani con Virginio Giovanni Bertini, sindacalista, ricercatore, scrittore e poeta, perché non si dimentichi e non ci si arrenda di fronte alla violenza. E’ stato spesso ospite di incontri nelle scuole, per tenere vivo il ricordo anche tra i giovani: “Fatevi raccontare dai vostri genitori cosa successe – dice -. Interessatevi, documentatevi e non dimenticate, perché tutto questo è successo anche in Italia e non dovrebbe succedere più. Aprite la vostra mente finché c’è tempo, o sarà troppo tardi”.

Oggi si ricordano i sei milioni di ebrei uccisi, le camere a gas, i forni crematori; ma anche tutti i disabili, gli omosessuali catturati e deportati. E non solo. Oggi si ricorda la morte di chi, in ogni occasione, dinamica o epoca, ha lottato in nome della libertà. E Dante continua a raccontare sperando che tutto questo non accada mai più.

Foto dal sito del Comune di Porcari

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