La buona memoria. Di pietra

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(parte prima)

…Possiamo finire per non accorgercene, ma viviamo abitualmente in un paesaggio urbano tutto segnato dalla storia.
Mario Isnenghi, Le guerre degli Italiani. Parole, immagini, ricordi. 1848-1945. 
Mondadori, Milano 1989 pag 319.

Le pietre della Memoria.

I segni del tempo, della storia, della vita.

La vita passata. In genere in maniera tragica, sofferente, dolorosa.

“Q. M. P.” Queste lettere sono poste spesso al termine di un incipit scolpito sulle lapidi; Significano ;  “Questa Memoria Posero”.

Si trovano un po’ dappertutto, nei cimiteri, sui muri.

Q.P.M.     La Memoria di pietra, in genere pietre dure, che non sono gelive, che non si deteriorano nel tempo.

Portano incise date, località, nomi di persone che han perso la vita. Fissano nel tempo la Memoria di un evento. Per non perderla. Noi ci passiamo davanti, le vediamo, a volte leggiamo scorrendo, le frasi, ma se non ci soffermiamo non ci dicon molto. Occorre fermarsi, leggere, riflettere, mettere in sistema i punti, collegarli. E capire. Servono a questo le lapidi e le pietre della memoria. Per ricordare e capire.

La memoria è il significato che attribuiamo all’esperienza, non semplicemente la rievocazione di eventi ed emozioni di quell’esperienza. (Steve STERN).

Ogni paese ha un piccolo o grande monumento ai Caduti.

Generalmente è dedicato ai caduti della Grande Guerra, e talvolta anche a quelli delle precedenti guerre Risorgimentali; altre volte si affianca una seconda lapide con i caduti della Seconda Guerra Mondiale, o gli stessi vengono riportati sotto la prima lapide, a seguire.

Questo monumento con lapide, è del mio paese, Sommocolonia, una minuscola frazione del Comune di Barga.

Sono venti caduti. Impressionante per la relativa piccola dimensione del paese!

Sotto c’è la targa con ventidue caduti della Seconda Guerra Mondiale, tra soldati e vittime civili.

La Grande Guerra ha chiesto il suo pesante tributo, e la Seconda ci ha picchiato forte da queste parti.

Il culto dei caduti della Grande Guerra risale agli anni immediatamente successivi all’Armistizio di Villa Giusti. È strettamente sequenziale al percorso della Memoria iniziato dal Milite Ignoto.

Quindi il nascente fascismo, nel ’22, dà il via al Mito dei caduti della Grande Guerra.

“È tempo di miti e non di Storia!” ( Benito MUSSOLINI).

Nascono così i Comitati locali che provvedono a far costruire i Viali della Rimembranza e i Parchi. Nel 1923 erano già 1048. Tutti vogliono contribuire, le Istituzioni locali, le scuole, le varie Associazioni militari.

A Lucca si dettero così tanto da fare che realizzarono sia il Viale della Rimembranza a Monte San Quirico, sia il Parco della Rimembranza alla Colonia di Mutigliano.

Quello di Mutigliano, molto più complesso, costò 9.675,10 lire ( di allora…)!

È un continuo susseguirsi di donazioni, di offerte, le ditte regalano i materiali. Tutti i paesi vogliono il loro monumento. Non vogliono dimenticare i loro cari.

È una gara di generosità della Memoria. Non sempre condivisa, ma comunque avvertita.

Giusto per informazione, la scultura della pietra ricordo dei “Caduti comunali di Lucca”, sulla prima rampa di scale di Palazzo Santini, venne donata dallo scultore Umberto PINZAUTI, mentre il marmo veniva donato dalla Società Nord Carrara.

IL Consiglio Comunale ringraziava. A Lucca, quando è “a gratisse”, ci piace.

Poi, nel ’28 per il decennale della Vittoria, i lucchesi faranno erigere addirittura un terzo monumento ricordo: il Faro della Vittoria in Piazzale Verdi con la pietra del Carso. Ne esiste uno simile, ma più piccolino anche a Nozzano. Fu realizzato anch’esso nel 1927/28.

La Memoria non ci manca a Lucca. Manca chi la rispetta.

Uno scellerato, anni addietro, aveva progettato addirittura di rimuovere quello di Piazzale Verdi. Ci volevan fare un anfiteatro. A volte rimango perplesso…

Ogni parco o viale, aveva degli alberi piantati per ricordare il soldato caduto, in genere cipressi o lecci per garantire la longevità della pianta, che recava una piccola targhetta o un picchetto li vicino, con il nome del caduto.

Negli anni queste targhette sono andate perdute, o conservate per ricordo dai parenti; spesso si trovano in vendita sui mercatini dell’antiquariato, vera e propria offesa alla Memoria.

Questa operazione memoriale fu molto sentita e ogni frazioncina ebbe il suo monumentino o comunque una lapide con alcune piante in numero pari ai caduti.

Montigiano è una frazioncina così piccola e sperduta che pochi conoscono a Lucca.

È situata nel comune di Massarosa, sopra il Monte Pitoro. Ci abitano una cinquantina di persone o poco più. Panorama straordinario.

La chiesa, chiusa e funzionante ad orari, ha comunque sul suo lato nord un piccolo giardinetto con un monumento ai Caduti, e intorno ci sono dei lecci. In numero pari ai caduti. Quattro.

E così in tantissimi paesi. In tutti praticamente.

Solo nel Comune di Lucca ne contiamo una cinquantina, tra semplici lapidi a muro, monumenti con statue di vittorie alate, soldati in posa, o semplici reperti militari, elmetti o proietti di artiglieria.

A San Donato di Lucca il monumento ai caduti è sul muro laterale della chiesa. Una lapide con una aquila stilizzata e sotto vi sono scritti i nomi dei nove caduti del paese.

Qualche giorno fa l’Associazione Paracadutisti di Lucca ha provveduto a ripulirla; lo facciamo normalmente per i nostri monumenti, di concerto con l’Amministrazione, cercando di ridare dignità e decoro ai caduti per l’Italia.

Non ci vuol tanto; un paio d’ore di sabato, una sfalciata all’erba, un paio di spugne e acqua.

Lo posson fare tutti. Ma non lo fanno.

Però tutti guardano, curiosi, poi chiedono, poi approvano scuotendo la testa…  Ce ne fosse mai uno del paese che leva una carta, che pulisce un nome. Mai.

Vabbè. Mentre eravamo lì a sfrullinare e pulire, vedo che sul giardinetto a lato della chiesa ci sono piantati cinque lecci, belli grandi… poi vedo in terra, tagliate alla base, altre quattro ceppe.

Nove sono nomi sulla pietra.

Erano le piante ricordo dei caduti.

È stato un attimo andare ad acquistare in un vivaio lì vicino quattro piante di leccio, e ripiantarle accanto alle vecchie ceppe. Ripristinando così la memoria.

Nove piante per i nove caduti di San Donato.

“A ciascuno il suo”, come diceva Sciascia.

Mi ricordo al riguardo un episodio “curioso” avvenuto tre anni fa, in una frazioncina di Lucca, Gattaiola.

Un residente locale aveva fatto una minuziosa opera di ricerca dei caduti della frazioncina, tra i quali c’era il nonno.

Poi aveva acquistato, a sue spese, una bella lapide in marmo e ci aveva fatto incidere i loro nomi, – quattordici mi pare –, le date, e la dedica alla Grande Guerra.

La lapide era stata murata su una parete del cimitero. Il giardino del cimitero aveva tutte le quattordici piante di leccio ricordo dei caduti e una lapide anonima senza nomi.

Era un bel gesto. Si ricordavano così anche i nomi oltre che al numerico anonimo.

L’iniziativa era stata patrocinata dal Comune, e il nuovo Sindaco mi aveva incaricato di presenziare e organizzare la piccola cerimonia di scopertura della lapide.

Di buon’ora arrivo sul posto, organizzo con alcuni operai la cosa, copriamo la targa con il Tricolore, proviamo l’impianto di amplificazione, Inno d’Italia, Canzone del Piave, Silenzio e via.

Una cosa semplice ma sentita.

Pochi paesani, ma comunque arriva nel frattempo un po’ di gente; le guardie, il Maresciallo dei CC, il prete, qualche assessore.

Mentre aspettiamo l’arrivo del Sindaco, mi si pianta davanti “una”.

Una di quelle che ci son sempre in queste circostanze, una di quelle stopponate, invasate, fazzoletto al collo, sguardo spiritato; “una” triste dentro, che ha sempre la verità infusa.

La loro verità.

Arriva accompagnata da altre tre stopponate uguali. Tristi anche loro.

Mi dice senza mezzi termini: “Allora, io faccio il discorso commemorativo!”

Io sono dotato di una pazienza limitata…

Respiro.

Gli rispondo educatamente che, “per la verità, io sarei stato incaricato direttamente dal Sindaco di tenere l’allocuzione ricordo e quindi, mi dispiace, ma se il Sindaco non cambia idea, l’allocuzione la terrei io.”

L’arrivo del Sindaco, che capisce al volo la situazione e mi viene incontro dandomi la mano, sancisce definitivamente la questione.

Ma questa non demorde: vedendosi alle strette, per non perdere la faccia davanti alle amiche che avevano assistito a questo siparietto… continua con la faccia stravolta dalla rabbia e dalla figuretta, dandomi  “sue precise indicazioni” di cosa e come dovevo dire nella mia allocuzione!

“…lei deve dire che questi ragazzi son partiti ottanta anni fa per la nostra libertà…!”

La mia pazienza era ormai giunta al capolinea.

Gli risposi, educatamente, che sentivano anche da Viareggio… che questi ragazzi son quelli CHE NON SONO TORNATI! 

Quelli che son partiti erano di più!

Infatti c’è scritto sulla lapide che questi sono “i Caduti”, non quelli partiti. E sono i caduti di Gattaiola della Grande Guerra!

C’è scritto anche quello lì, sotto la targa: 1915/18.

Non sono i caduti della Seconda Guerra Mondiale, ma della Prima! È scritto pure in italiano. Non è neanche difficile. Però bisogna leggerlo.

Non ci incastrava, storicamente, niente!

E, giusto per capire…. son partiti perché “dovevano” partire!

Altrimenti arrivavano i Carabinieri Reali a prenderli, altro che la “nostra libertà”.

La tipa stopponata e invasata afferrata l’antifona, ripiegò, allontanandosi piuttosto contrariata, accompagnata dalle amiche tristi.

Fine delle trasmissioni da Gattaiola.

Un’altra targa della Memoria che mi è sempre rimasta impressa è a Sarajevo.

Lungo la strada chiamata “Apple Quay”. Negli anni successivi sarà meglio conosciuta come “il Viale dei Cecchini”.

A metà viale, davanti al Ponte Latino sul torrente Miljaca, c’è un edificio d’angolo; in origine vi era una caffetteria gestita da un ebreo di nome Moritz, poi è diventata una biblioteca.

Sul muro in basso c’è una targa che ricorda il punto dal quale uno studente serbo-bosniaco di 19 anni e 11 mesi, Gavrilo Princip, sparò all’Arciduca d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e alla sua consorte Contessa Sophie Chotek, freddandoli entrambi con due soli colpi di pistola. Una Browing Mod. 1910 calibro .380 ACP. Matr.14074.

La targa, anzi le targhe in questione sono due; hanno la particolarità di essere scritte in due lingue diverse. Le dimensioni sono identiche ma le scritte, una in bosniaco e una in cirillico, riportano una diversa descrizione del protagonista, cambiando completamente lo scenario geopolitico: la versione bosniaca attribuisce il titolo di criminale al “terrorista” Gavrilo Princip; di contro la targa in cirillico, quindi di orientamento serbo, invece si rivolge al Princip come “patriota e eroe liberatore”.

Così è la vita, e la Storia.

A seconda di quale amministrazione governava Sarajevo, se a maggioranza bosniaca o serba la giunta provvedeva a far murare la vecchia e metter su quella orientata verso la fazione governante: poi quando questa cambiava, si smurava la targa vecchia, si rimetteva in magazzino e si rimurava l’altra. Oggi c’è quella bosniaca, per adesso…

Sul marciapiede in basso, lì vicino, un’altra pietra riporta le impronte dei piedi dello sparatore.

Mah ?!.. Chissà come avran fatto per capire se era davvero in quel punto lì, o 3 metri più avanti, ma poco importa. Rimangono i segni nelle pietre. Le pietre come Memoria.

Storie della guerra.

Un’altra targa, in metallo stavolta, si trova a Sarajevo sulla spalletta di un ponte, a Vrbana, quartiere Gorbavica; il Ponte “Suaga e Olga”. Questi nomi sono di due ragazze del posto, una studentessa bosgnacca e una pacifista croata che nel 1992 vennero freddate da un cecchino serbo.

Quindi, siccome non bastava, anche un italiano, Gabriele Moreno Locatelli da Canzo (CO) dei Beati Costruttori di Pace, mentre con alcuni confratelli portavano una corona di fiori sul luogo della uccisione delle due ragazze, veniva a sua volta colpito da un cecchino. Morirà pochi giorni dopo.

Poi il ponte divenne più noto come “il Ponte degli innamorati” perchè due ragazzi, uno serbo Bosko Brkic, e una ragazza bosnica, Admira Ismic innamorati della vita, si incontravano in un caffè poco distante, li vicino al ponte. E lì sul ponte, il 2 dicembre 1993, qualcuno dalla collina, nuovamente, terminò il loro amore. Uccidendoli.

I loro corpi sono rimasti sul ponte per otto giorni, sotto il fuoco dei tiratori scelti che bersagliavano chiunque provasse ad avvicinarsi!

Ci volle una tregua speciale per permettere il recupero di “Romeo e Giulietta di Sarajevo”.

Nella foto sono sul ponte davanti alla loro targa. C’è scritto: “Kap moje krvi poteče i Bosna ne presuši” (“Una goccia del mio sangue scorre e la Bosnia non diventerà arida”).

Nella mano sinistra tengo il “prodder”, una lunga sonda di alluminio per tastare il terreno alla ricerca delle mine.

Da Sarajevo per adesso è tutto.

Alla prossima

Vittorio Lino Biondi
Vittorio Lino Biondi
Sono un Colonnello dell'Esercito Italiano, in Riserva: ho prestato servizio nella Brigata Paracadutisti Folgore e presso il Comando Forze Speciali dell'Esercito. Ho partecipato a varie missioni: Libano, Irak, Somalia, Bosnia, Kosovo Albania Afganistan. Sono infine un cultore di Storia Militare.

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