Sindaco, “io non la Giudico, io la perdono”.
Quanta sublime dolcezza. Quale apertura di cuore. Quale ebbrezza di spirito.
E poi le altre parole: belle, chiare, commoventi. “Il sindaco si è sbagliato e ha detto una cosa che non è vera: la pace non ha bisogno di condizioni”.
La pace, quella vera, non vuole condizioni. Non si può dire che per la pace necessità la liberazione degli ostaggi. Né, tantomeno, che la pace necessiti il disarmo di Hamas. No. la pace la si deve volere e basta. Nessuna condizione.
Bellezza della purezza di spirito. Grandezza del pensiero di pace. Sublime altezza delle anime belle.
E naturalmente, chi ha assistito è stato rapito. Applausi a scena aperta, commozione, intima adesione.
Eppure…
Eppure qualcosa suona stonato.
Per i pochi, pochissimi, che non conoscono Francesca Albanese facciamo un breve focus.
Francesca Albanese è la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nel Territorio palestinese occupato (dal 2022). La sua attività ha però generato forti polemiche, specialmente da parte di Israele e degli Stati Uniti (e non solo), che l’hanno accusata di avere un marcato pregiudizio anti-israeliano e persino di antisemitismo e di supporto al terrorismo. Tra le sue posizioni più controverse figurano: la tesi che l’occupazione israeliana sia un sistema di apartheid; la denuncia pubblica, contenuta in un suo rapporto, che le azioni di Israele a Gaza costituiscono “genocidio come cancellazione coloniale“; la dichiarazione che il regime imposto da Israele ai palestinesi è una “prigione a cielo aperto“. In un’altra occasione, rispondendo indirettamente con un post su internet ad una esternazione di Emmanuel Macron che parlava del pogrom del 7 Ottobre, ebbe modo di dire: “il più grande massacro antisemita del nostro secolo? No Emmanuel Macron, le vittime del 7 ottobre non sono state uccise in quanto ebree ma in risposta all’occupazione israeliana”. Ha anche fatto una relazione, sempre per l’ONU dal non ambiguo titolo “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”.
Di sicuro la nostra non ha ritenuto che le sue posizioni fossero da moderare o esprimere con un linguaggio diplomatico, né disdegna la ribalta della scena. La sua figura di esperta è direttamente legata alla sua lunga storia di presenza e vicinanza al medio-oriente dove, per oltre un decennio, ha lavorato per l’Alto Commissariato per i Diritti Umani (OHCHR) e l’Agenzia per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi (UNRWA). Sfortunatamente queste istituzioni, soprattutto la seconda, non brillano per indipendenza di giudizio con l’aggravante dell’accusa per l’UNRWA di infiltrazione da parte di esponenti di Hamas.
Fatta questa breve e dovuta retrospettiva vediamo quando e su chi la nostra ha effuso il suo perdono.
Il fattaccio si è svolto a Reggio Emilia. Il reprobo è il sindaco, eletto in quota PD, Marco Massari. Il contesto era il conferimento di un premio, da parte dello stesso sindaco ad Albanese, per il suo lavoro e, indirettamente, per le sue posizioni. Il peccato così generosamente perdonato? Una frase che il sindaco ha detto dal palco: “Il feroce attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre non giustifica in alcun modo il massacro che è in essere a Gaza”. E fin qui la nostra guida spirituale è rimasta tranquillamente al suo posto di onore di premiata della serata.
Ma poi lo scivolone. Rovinoso. Il sindaco aggiunge: “Credo che la fine del genocidio e la liberazione degli ostaggi siano condizioni necessarie per avviare per quanto possibile un processo di pace”.
Se non avete avuto occasione di vedere la scena ve la descriviamo: lei, sul palco, che guarda benigna il sindaco. Poi, al momento dello scivolone del sindaco, si porta la mano alla testa coprendosi gli occhi; scuote la testa con lenta rassegnazione; attende la reazione del pubblico; che risponde al richiamo e comincia a rumoreggiare. Prima qualcuno; poi, in crescendo, la constatazione prende fiato. Allora alza le mani, sembra voler contenere il pubblico, o forse lo vuole benedire, e prende la parola per ammaestrare e spiegare. Scena profondamente ispirata.
Il sindaco, da politico consumato, non fa un plissé: sorride; guarda benevolo la maestra di vita; si lascia redarguire. Accetta anche la raccomandazione, che è naturalmente un rimprovero: “mi prometta che non lo dice più”.
Tutto si svolge in un clima di amorevole compassione.
Però… però… ci chiediamo: ma davvero la situazione è così semplice? Davvero queste belle parole sono anche vere e possono portare alla pace? Davvero il problema è che non si depongono le armi senza condizioni?
Su questo ci permettiamo di sostenere che le cose non sono così semplici. Crediamo che la situazione sia difficile e che non ci siano soluzioni unilaterali e semplici. Che la pace sia una cosa da conquistare con prudenza e conoscendo anche il male che c’è nel mondo.
Israele ha subito un attacco senza precedenti. Un attacco che, nelle intenzioni dei leader di Hamas, avrebbe necessariamente innescato una reazione violenta. Una violenza cercata, desiderata. Apertamente invocata proprio da quel Ismail Haniyeh, presidente dell’ufficio politico di Hamas e “mediatore” incaricato delle trattative con Israele: “Abbiamo bisogno del sangue delle donne, dei bambini e degli anziani per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario” disse in un intervento pubblico a proposito del raid del 7/10.
Una volontà che ha condizionato la guerra. Una volontà che ha trovato eco nella componente politica di governo di Israele che era pronta e desiderosa di buttarsi nel sangue e nella ricerca di una “soluzione finale” del problema del terrorismo palestinese.
Erano quindi due parti: la coalizione a trazione confessionale ed estremista di Netanyahu e la formazione politico-terroristica-combattente totalmente confessionale ed estremista di Hamas. Entrambe maggioritarie nei propri territori, entrambe desiderose di guerra e sangue, entrambe alla ricerca della distruzione dell’altra parte.
In entrambi i campi esistono anche delle minoranze che vogliono altro per il loro futuro: dalla parte di Israele si è fatta sentire costantemente in questi due anni e ha dimostrato una significativa consistenza numerica. Dal lato della striscia di Gaza è più difficile dire quanto è grande l’area civile che non vuole la guerra: da quelle parti mostrare disaccordo costa la vita perché Hamas non è una forza democratica. Sebbene per affermarsi raccolse voti e, ragionevolmente, ebbe (e forse ha ancora) il sostegno della maggioranza della popolazione. Pure questa minoranza, di quando in quando, mostra la testa con proteste che compaiono e scompaiono.
Queste due minoranze sono quelle da cui può rinascere la speranza. Ma sono ancora minoranze. Tra le due, è più probabile che emerga quella israeliana che quella palestinese. E se sarà solo una parte a volere la pace nulla cambierà davvero. La migliore speranza che possa emergere anche la minoranza palestinese è che Hamas venga rimosso o ridotto all’impotenza. Vedremo gli sviluppi.
Dobbiamo chiederci: è tollerabile vivere senza sicurezza con il rischio di attentati, rapimenti, missili? Francamente no.
È altresì tollerabile una vita in cui si è privati di tutto: casa, libertà di spostamento, futuro? Francamente no.
Alla fine per la pace serviranno tantissime condizioni. Servirà il ritorno dei rapiti. Di quegli uomini e donne che sono la grande rimozione dell’occidente. E finalmente sembra che ci siamo. Servirà un percorso di pacificazione. Servirà un contesto di vera sicurezza. Servirà una vera libertà di vita. Servirà la possibilità di avere un futuro e poterlo realmente costruire.
Serviranno soldi e aiuti. Servirà una cultura della pace e di rifiuto della violenza. Soprattutto di quella terroristica. Una cultura che solo la presenza di altri paesi che si vorranno “impicciare di questa situazione” potrà portare. Servirà il riconoscimento reciproco e servirà abbandonare il desiderio di distruzione dell’altra parte.
La verità è che la pace ha necessità di tantissime condizioni. È per questo che, nei secoli, è sempre stata la cosa più preziosa e difficile da raggiungere.