Per alcuni giovanotti in età di esame di Stato va di moda in questi giorni, conquistare cinque minuti di notorietà sui vari social, rifiutandosi di sostenete la prova orale, adducendo che il “sistema” così non va… e che bisogna cambiare… e che i voti… e che i proff… e che la fava di Noè era lunga trentatré.
I soliti discorsi; son 40 e passa anni che li sento. Sempre gli stessi.
Convinto sostenitore della libertà, non giudico il comportamento di questi ragazzi, ma siccome rivendico la mia stessa libertà, posso criticarli.
È facile rifiutarsi di sostenere la prova orale al termine del percorso scolastico, quando i giochi e i punteggi di quello stesso sistema ve lo consentono impunemente.
Facile eh? Nessun rischio; i diritti e le regole, che voi non rispettate, valgono per voi prima dei doveri.
Avendo già sostenuto con efficacia la prova scritta (verba volant scripta manent…, sapevatelo!), potete tranquillamente fare i leoni di cartapesta conquistando qualche migliaio di like sui vostri profili, e apparendo come i coraggiosi conquistatori del mondo futuro. A posto siamo. Bel coraggio. E anche ve ne vantate. Bravi proprio.
Con la compiacenza sterile e inutile dei vostri genitori che invece di prendervi a calcioni nel culo, son convinti di fare bene ad assecondarvi. Poveri bischeri.
Questa penosa parade di esaminandi incompleti, subito imitati da altri fenomeni sempre pronti a cercare di apparire e non essere, moda assai diffusa tra i ragazzi ultimamente, mi ha fatto tornare alla mente un episodio simile, ma assolutamente diverso, della mia assai tormentata prima giovinezza.
Anno scolastico 1980/81, quinta classe Geometri, Sezione “C” Istituto Tecnico “F. Carrara” di Lucca. L’anticamera dell’inferno.
Marzo 1981, avevamo un accertamento scritto per l’ammissione all’Esame di Stato; un percorso lungo e faticoso, per alcuni durato 6 anni (…!) al posto dei calendariali cinque.
Esame di Topografia: il percorso della strada; data una carta planimetrica, e tre punti fissi, tracciare il percorso economicamente più efficace. È tutta una roba di pendenze, livellette, sterri e riporti di terra… Una faccenda complicata e assai laboriosa, ma fa parte integrante della formazione del geometra, e in quinta c’è poco da scherzare; va fatto.
Infatti già nei giorni precedenti ci eravamo ingegnati per affrontare questa prova decisiva in maniera efficace; i più bravi (tre o quattro su diciassette..) si sarebbero mischiati strategicamente nell’aula, sparsi a macchia di leopardo, in mezzo a quelli meno… capaci diciamo, e una volta terminato il loro elaborato, mentre si recavano, lentamente, alla cattedra a consegnare il prezioso documento, avrebbero passato la brutta copia, leggibilissima, agli altri ignavi in attesa del prezioso supporto didattico… Prezzo di questa infamia funzionale, una serie di colazioni al mattino al barino dello Stadio. Tutto collaudato da mesi e mesi di raffinate prove e test di efficacia! Topografia non ti temo!
La nostra classe, la 5° “C” Geometri, era una classe assolutamente disomogenea; i geometri son curiosi, assai autonomi, non si aggregano tra loro come la paritetica classe della Quinta Ragioneria a fianco a noi, da dove fuoriusciva… “un profumo di femmina quaggiù” come dice Zucchero; le poche ragazze che si avventuravano nel percorso tecnico del mestiere di geometra erano assai più spartane delle vicine ragioniere sempre elegantissime e azzimate; le geometre erano poco sociali, vestivano jeans e maglioni sformati, scarpe pesanti, e socializzavano poco; qualcuna era già in uggia di puntare a Ingegneria e non si confondevano con le pulsioni ormonali dei maschietti della classe. Niente feste e festine come le altre di ragioneria. Solo calcolatrici tecniche programmabili Texas Instruments (la famosa “TI 57”), squadrette “Antonio MARTINI”, penne a china che si seccavano sempre sporcando d’inchiostro di china incancellabile le mani, tuboni porta disegni con i vari progetti su carta lucida di villette monofamiliari che nessuno ha mai realizzato. Così è la vita…
Difficilmente studiavamo insieme; i geometri son gelosi della loro conoscenza, e ancora oggi, dopo cinquanta e passa anni abbiamo organizzato una sola e unica semidesertica cena di classe, dove ci siam ritrovati in una decina; quello era morto, quell’altra pure, quello era emigrato, quello era passato a Scienze Politiche, quell’altra era in Comune, uno era finito in galera, uno “a soldato” (io) e via così. Una pena.
Però avevamo una coscienza sociale.
Una vera, forte, appassionata coscienza sociale; libera, giovanile, ma impegnata. Sentita. Partecipata.
Nel Marzo del 1981 la Corte di Assise di Appello del Tribunale di Catanzaro emise una vergognosa sentenza sulla Strage di Piazza Fontana a Milano.
Nel dispositivo della sentenza si scagionavano i principali imputati, Franco Freda, Giovanni Ventura e Giannettini accusati di concorso in strage; avevano ucciso con una bomba decine di persone a Piazza Fontana. Una strage di italiani. A Milano.
Gente nostra. Lavoratori, persone, adulti e bambini. Uccise.
Da una bomba messa anche da questi signori e da altre canaglie faccendiere, per una politica infame, terroristica. La “strategia del Terrore.” Abbiam passato dei tempi davvero oscuri, credetemi.
Questa sentenza era schifosa. Lo percepivamo. Lo credevamo.
La mattina della prova pratica, alla prima ora, eravamo nell’aula di Topografia in piedi davanti ai nostri tecnigrafi e attendevamo che il Prof. Dazi (una bravissima persona peraltro) terminasse l’appello; feci circolare tra i compagni di classe una idea. Tutti annuirono.
Terminato l’appello richiamai l’attenzione del professore e gli dissi a voce alta che noi tutti, adesso, intendiamo abbandonare l’aula e non fare il compito tecnico (N.B. valido per l’ammissione all’esame!!!), per formalizzare una decisa protesta nei confronti di quella sentenza vergognosa. Che la nostra scelta non era niente di personale nei confronti del professore, e che volevamo che questa decisione fosse assolutamente registrata sul Registro di Classe, affinché rimanesse traccia scritta e formale che una classe di geometri, in Italia, nel 1981 aveva abbandonato la scuola, per protesta.
Una protesta vera. Non calcolata, né pavida. Un Urlo dal silenzio.
Poi…. succedesse quel che doveva succedere…
Certo… mentre dicevo queste cose avevo il cuore in gola.
Il destino mio e dei miei sciagurati compagni era in gioco. Nonostante l’assoluta differenza comportamentale, in questa circostanza eravamo stati assolutamente compatti e solidali. Avevamo dimostrato di avere una vera e determinata coscienza civile, senza calcoli né facili sofismi. Questa era una vera protesta e una ribellione. Civile, seria e pericolosa.
Era un attimo prendersi un 7 in condotta e essere NON Ammessi…
Giocarsi un intero anno scolastico. Non è poco.
Altro che non fare l’orale dopo aver preso 60/100 agli scritti ed essere matematicamente promossi. Fenomeni a colori.
C’era poco da fare o da dire…
O si fa o non si fa: ma per me e per noi era la cosa giusta. Si fa.
E sotto lo sguardo sbigottito e i ripetuti inviti di un esterrefatto prof. Dazi a ripensarci bene, a non fare sciocchezze, …”ma dai ragazzi parliamone…”, “ripensateci, vi prego”, “… non vi rovinate”, senza indugiare uscimmo e ci allontanammo dalla scuola; chi andò in città, chi a casa, chi disponendo di Vespa PX 125 in compagnia di altro sciagurato, andò al mare. A meditare sul rientro al proprio domicilio.
Che in verità fu meno tumultuoso del previsto.
Più o meno…
Mio padre, Maresciallo della Stradale che calzava stivali da motociclista calibro 45, fu assai comprensivo.
Disse solo “speriamo bene…”
Ma capì, e sotto sotto approvò.
Al mattino seguente, appena terminato l’appello la temibile prof di Italiano Maria Rucireta Bicocchi mi fulminò con lo sguardo calibro 12,7 (quello della mitragliatrice pesante Browing), e insieme ad altri tre “capimanipolo” ci spedì dritti in Presidenza dove ci attendeva il plotone di esecuzione formato dal Preside (all’epoca si chiamava così), Prof. Giacomo Ricci un insigne matematico che parlava garfagnino stretto con la “G” al posto della “C”, e due VicePresidi (che onore…) il Piazza e la Ornella Bagat Vitali.
Noi tre muti in piedi davanti al tavolo di presidenza.
Sembravamo Ciro Menotti davanti al patibolo.
Il Ricci esordì con un gagliardo: “O brutti imbegilli, ma che v’è venudo in mente?”
Barbottolammo una serie di scemenze variamente articolate, tra le quali filosofiche citazioni dantesche sulla verità, mescolando basilari nozioni di Diritto, e alla fine rimanemmo a testa china aspettando la ghigliottinata.
“Ma lo sapede che risghiade di non essere ammessi all’esame?”
…
E io con un filo di voce: “Volevamo che la nostra protesta fosse formalizzata e rimanesse nel tempo: qualcuno lo deve dire che questa sentenza è uno schifo e una vera ingiustizia.”
E lui di rimando: “Siete condenti adesso? E se ‘un v’ammeddono all’ Esame che fade? Ripedede l’anno? Maladeddi bisgari.”
Rimanemmo lì tra il lusco e il brusco per un po’… poi il Preside Ricci se ne uscì con un: “Tornade in aula e che non si ripeda più !”
E fini lì.
Ma in un polveroso Registro di Classe dell’Anno Scolastico 1980/81 della Quinta Geometri Sezione “C” (C come “C”oglioni, disse poi qualcuno…), c’è riportata scritta la nota che nel “Marzo 1981 l’intera classe esce per protesta contro la sentenza della Strage di Piazza Fontana.”
Cari studenti dei giorni di oggi, a far le cose giuste ci vuole il coraggio, non il calcolo scientifico.
Ma il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare.
(cit. Don Abbondio di fronte al cardinal Federico Borromeo, nei Promessi Sposi)
Fine delle trasmissioni.
Vittorio, mi fai tornare a mente il mio Esame di Stato al Galilei di Firenze nel ’69. Erano appena smorzati i casini del ’68 e noi della Va D c’eravamo entrati nel mezzo con trombe e tamburi. Certo il “sistema” di ammissione all’Esame era diverso, ma noi ragazzi già incazzerecci c’entrammo a testa alta nonostante le assemblee , le manifestazioni, gli scioperi, i Consigli d’Istituto e tutto il seguito e ne uscimmo tutti quanti pure già abilitati alla professione. Allora in Commissione c’era ancora il Rappresentante del Collegio dei Geometri e quindi fummo subito abili e arruolati. Poi dopo ognuno scelse la sua strada, ma dal Galilei uscimmo in blocco, con tutti gli onori.
Penso alla ragazza del Canova di Treviso, un eccellente isituto: se avesse visto in che condizioni studiavano le ragazze afghane, e scrivo studiavano, perchè oggi non è loro più consentito, avrebbe forse potuto capire cos’è, per una studentessa, il vero coraggio. Il vero coraggio, era il loro: percorrere i sentieri e la strada dal villaggio alla scuola, per chilometri, a piedi, rischiando di saltare su una mina, o essere consapevoli che un posto di blocco dei talebani, fermato il fatiscente pulmino carico di studenti, “giustiziavano” o sfiguravano le ragazze che osavano avere la pretesa di studiare.