Riprendo per l’occasione un mio vecchio articolo, integrandolo
“Collar the Lot!”
Questo l’odine, secco ed esecutivo che il Primo Ministro britannico Sir Wiston Churchill, da poco subentrato nel delicato e importante incarico al posto di Chamberlain, aveva dato all’indomani del 10 giugno 1940 a Scotland Yard, la polizia britannica.
Catturateli tutti!
Letteralmente:
Mettete il collare a tutti (gli italiani)!
A tutti.
Questo ordine è immediatamente sequenziale all’annuncio di Mussolini del 10 giugno 1940, quando alle ore 18.30 si affaccia al terrazzino di Piazza Venezia a Roma e annuncia con voce virile… “Un’ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia.”

Ai fini storici, di fatto è Mussolini, Primo Ministro del governo fascista dell’Italia, che “consegna” la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna.
E anche alla Francia, agonizzante ormai, come una coltellata finale… I francesi se lo ricorderanno poi, a lungo. Corsi e ricorsi della Storia.
Mussolini anelava ad una rapida e favorevole chiusura delle ostilità e voleva essere presente al tavolo delle trattative.
Come disse a Badoglio, poco prima della dichiarazione di guerra: “Ho bisogno di un migliaio di morti (italiani…!) per sedermi al tavolo della pace”! Non era esattamente un fulmine in aritmetica. E neanche uno stratega. Ne avremo molti di più, e non siederemo mai a quel tavolo.
De Gasperi, umiliato, rimarrà in piedi alla Conferenza di Pace del ’46, davanti al tavolo dei vincitori (tra i quali, la Francia…).
Ma questa è un’altra storia.
Il Governo britannico in seguito a quella dichiarazione di guerra e alleanza con i tedeschi, mette in campo una serie di contromisure operative.
E qui occorre contestualizzare il momento storico.
I britannici isolati e stretti dalla fortissima pressione nazista, che nel frattempo ha conquistato in meno di un anno quasi tutta l’Europa, (Polonia, Danimarca, Norvegia, Francia, Belgio e Olanda…), temono una “quinta colonna” interna nel paese, come è accaduto in Norvegia…
Il Daily Mail del 19 aprile 1940 scrive:
“The Fifth Column is growing… The people ask that doubt-ful enemy aliens should be immediately interned and all other aliens strictly eliminated… The traitors on Norway have shown the perils of the enemy within”.
“La Quinta Colonna sta crescendo:.. la gente chiede che gli stranieri nemici più loschi vengano immediatamente internati e tutti gli altri stranieri severamente controllati…. I traditori della Norvegia si sono rivelati delle pericolose serpi in seno…

Il Direttore dell’MI5 Allen Harker (i servizi segreti di Sua Maestà), aveva ragione di pensare che gli italiani residenti nell’isola, più o meno simpatizzanti con il regime, potessero dar vita ad unità di sabotaggio interne che avrebbero compromesso la già fragile capacità di resistenza britannica.
Per questo, in seguito alla dichiarazione di guerra consegnata da Mussolini all’Ambasciatore della Gran Bretagna, Churchill emise subito il famoso ordine: “Collar the lot!”
“Prendeteli per il colletto”, acciuffateli tutti!
Catturateli!
C’è anche un libro che descrive questa tragica storia.
Già dalle prime ore del mattino dell’11 giugno (il giorno dopo!), senza alcun riguardo, la Police catturò circa 4000 italiani maschi, dai 15 ai 70 anni che vivevano da meno di 20 anni sull’isola, assolutamente pacifici e perfettamente integrati nelle comunità britanniche.
Famiglie distrutte nell’arco di un mattino, padri che venivano separati dai figli piangenti, madri che dovevano trasferirsi rapidamente lontane dalle coste, nessuna notizia, internamento in locali di fortuna, ippodromi, vecchi edifici abbandonati, in condizioni a dir poco disumane.
La comunità italiana era integratissima. Gli stessi poliziotti conoscevano benissimo molti degli arrestati ed erano in forte imbarazzo.
“Collar the lot!”
Il bellissimo libro scritto da Maria Serena Balestracci “Arandora Star dall’oblio alla memoria” è una precisa fonte documentale; la Balestracci ha impiegato un bel tempo per raccogliere tutti gli elementi di informazione, ritagli di giornale, foto, testimonianze, e a metterle in sistema; il quadro che ne vien fuori è tragico e doloroso…
Una storia italiana. Di oblio, come suggerisce il sottotitolo, e poi di Memoria.
Una ricostruzione accurata, dolorosa e impietosa.
Una storia fatta di deportazione forzata di questi italiani, ma anche di tedeschi prigionieri di guerra, verso zone lontane dal Regno Unito, per non aver problemi di gestione interna, e allontanare il pericolo.
La stessa sorte toccò, ad esempio, anche ai cittadini nippoamericani delle isole Haway, catturati immediatamente dopo l’attacco di Pearl Harbor e internati per ben due anni, in attesa di capire se di loro ci si poteva fidare; poi le autorità americane si fidarono così tanto da concedergli di partecipare, verso la fine della guerra alle azioni più pericolose sul fronte europeo: costituirono il 442° Reggimento NISEI (Nis-Ei =giapponesi di seconda generazione) che fu uno dei reggimenti americani più valorosi con il maggior numero di perdite e unico caso, dove non si verificò nessun caso di diserzione!
Hanno combattuto a lungo anche in Versilia.

Anche agli italiani d’America, la dichiarazione di Mussolini dell’11 dicembre 1941 sempre da Piazza Venezia (gli piaceva quel balconcino…), provocò l’internamento degli italo americani.
Tra essi Giacomo Martorana, figli di emigranti italiani. Era figlio di Letizia Gonnella di Barga e di Angelo Martorana, un siciliano “salito” a Barga per lavoro.
I coniugi Martorana, in quanto antifascisti emigrano in America negli anni ’30, lavorando sulla costa occidentale. In seguito all’ingresso dell’Italia in guerra contro gli USA, anche Giacomo Martorana, il figlio, venne internato, sospettato di simpatie fasciste, come tutti.
Ma lui chiese, e, dopo un pò di osservazione, ottenne, di combattere contro i nazifascisti.
Sarà accontentato, sbarcando con la prima ondata in Normandia, a Omaha Beach “the Bloody Omaha” il 6 giugno 1944.
E li rimase, stempiato da un proiettile tedesco sulla spiaggia.
C’è una targa che lo ricorda, messa dal Sindaco Sereni, sulla Rocca di Sommocolonia a Barga,
L’abbiamo inaugurata nel 2004 con il Comandante americano di Camp Darby.


Anche in Italia avvenne più o meno la stessa cosa. Alla rovescia naturalmente.
A Barga, alla notizia che l’Italia entrava in guerra contro la perfida Albione, un piccolo corteo di facinorosi scese la Piangrande e assaltò il Villino “Biagi” residenza di due coniugi inglesi, nei pressi del Sacro Cuore. Erano guidati da un personaggio locale che poi, pochi anni dopo, entrerà nella Resistenza, diventando anche abbastanza famoso…
Gli inglesi residenti in Italia vennero catturati dalla Milizia e trasferiti in diversi campi di internamento; uno era anche a Villa Basilica.
Torniamo al Regno Unito.
Occorre contestualizzare il momento storico, la tensione, e capire. Era in gioco la sopravvivenza dei britannici, e con loro a seguire, quelle del mondo intero.
Winston Churchill alla Camera dei Comuni, il 3 giugno 1940 pronuncia il famoso discorso: «…noi non capitoleremo. Andremo avanti fino alla fine. Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria, difenderemo la nostra isola, qualunque possa essere il costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste d’atterraggio, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai…»
Questo era il clima isolano britannico, in quel mese di giugno.
Le misure di sicurezza prese erano necessarie.
La loro applicazione fu sicuramente discutibile. Ma la guerra non è uno scambio di cioccolatini. Per quello non va mai fatta.
Una prima mandata iniziale di 2600 prigionieri internati fu fatta salire su una prima nave, la “Duchess of York” già il 20 giugno del 1940! Destinazione le coste del Canadà dove arrivò senza problemi. Il Canadà aveva offerto la disponibilità di 4000 posti e quindi… venne predisposto l’invio di una seconda mandata di circa 1100 prigionieri, sulla “Arandora Star”.
E qui si apre il balletto delle cifre.
La cifra esatta, ad oggi non è conosciuta, ma dalle ricerche accurate della Balestracci possiamo affermare che in totale le persone imbarcati sulla Arandora Star erano piu o meno 1500 cosi suddivisi: circa 1000/1100 prigionieri tra italiani (750…) tedeschi e austriaci prigionieri di guerra. Poi vanno contati 174 di equipaggio e circa 200 soldati britannici di scorta. Il numero esatto non si è mai saputo; esistono più elenchi e spesso i nomi si ripetono…
L’Arandora Stars era una nave da crociera britannica requisita per esigenze belliche dalla autorità militari del Regno Unito.

Era stata costruita dalla CAMMEL LAID &Co Limited, a Birkenhead (UK) il 1 Aprile del 1927 e varata nel’29, per la compagnia Blue Star line, che aveva tutte le navi con nomi che cominciavano con la lettera “A”. La Arandora, (primo nome) eran una nave commerciale e per crociere; dislocava inizialmente 12.000 T, poi in seguito fu portata a 15,000 e aggiunsero al nome la parola Star; filava a una velocità di 16 nodi, che garantiva un viaggio dall’Europa agli Stati Uniti in circa due settimane,
Poi, dopo le belle crociere, queste navi verranno impiegate per soddisfare l’emigrazione, piaga dolente dalla nostra storia, dei nostri nonni, del lavoro, dell’occasione di uscire da una miseria atavica. C’è una canzone bellissima di Francesco GUCCINI, “Amerigo”, che racconta il viaggio che un suo zio, Amerigo, emigrante da Pavana nell’Appennino, fa in nave per arrivare nel Nuovo Mondo. “E già sentiva in faccia l’odore d’olio e mare che fa Le Havre…”
I prigionieri italiani furono riuniti in un campo di concentramento a Whart Mills, vicino a Liverpool. Destinazione Canadà. Per il trasporto fu scelta la Arandora Star, requisita per esigenze militari.
Fu caricata, in dispregio a qualsiasi norma di sicurezza marina, al massimo della potenzialità, stivando i prigionieri sottocoperta. L’ordine di caricamento venne a lungo contestato dal Comandante della nave, il Capitano Moulton, che assieme al Maggiore C.A. Bethell, comandante la scorta, si opposero addirittura ad una ulteriore richiesta di caricamento di altri 500 prigionieri!
Ma quelli ormai pronti dovevano salire.
Il fatto poi che la nave non fosse stata dipinta con i contrassegni di trasporto civile, o le croci della Red Cross sulle fiancate, contribuì non poco alla tragedia.
Un ulteriore elemento che fu di fatto determinante, fu la installazione a prua e a poppa di due pezzi di artiglieria navale, ben visibili, che di fatto “militarizzavano” completamente l‘Arandora Star, incamerandola nel naviglio militare britannico!
C’era poco da fare, era di fatto una nave da guerra britannica. Un obiettivo militare.
Il 2 luglio 1940, di notte, al largo delle coste irlandesi, la Arandora Star fu intercettata da un sommergibile tedesco, lo U-Boot tedesco U-47, un bestione della classe VIIB da 750 tonnellate, comandato dall’asso dei sommergibili il Korvettenkapitan Günther Prien, conosciuto come il Toro di Scapa Flow, dove nell’ottobre del ’39, aveva affondato la potente nave da guerra inglese “Royal Oak”.
Ghunther chiamò per conferma della corretta identificazione il secondo ufficiale che analizzò il profilo della nave, e una volta visti i pezzi di artiglieria a prua e a poppa, vista la rotta a zig zag tipiche delle navi militari e la mancanza di contrassegni e di illuminazione, concordò che era una nave da guerra.
Il resto è scontato.
È la guerra.
Un solo siluro, l’ultimo rimasto a bordo. Era pure un po’ difettoso, ma funzionò benissimo.
Il siluro colpì la sala macchine a dritta, provocando il blocco della elettricità e della forza motrice, quindi delle pompe.
Il sovraccarico bestiale, il rapporto critico scialuppe/imbarcati, la gestione dell’emergenza, che vide addirittura un Comandante tedesco prigioniero, Otto Burfeind della nave tedesca Adolph Woermann, affiancare il comandante inglese e gestire con lui la situazione per dirigere le operazioni di evacuazione nave.
Entrambi i comandanti rimasero a bordo fino all’ultimo. Ma la notte, le poche scialuppe e la rapidità dell’inabissamento, quaranta minuti, provocarono comunque circa 900 vittime tra prigionieri e soldati di guardia.
Il governo inglese, responsabile per la gestione disumana della navigazione, non ha mai chiesto scusa per questa tragedia “provocata” da una navigazione assolutamente fuori da qualsiasi norma di sicurezza marina. Ma anche questa è un’altra storia.
Molte vittime venivano dall’Appennino lunigiano-parmense; 15 di essi dal mio paese, Barga; morirono tutti.
Le vittime furono ritrovate sparse sulle coste scozzesi, sulle isole Ebridi e sulle coste nord occidentali dell’Irlanda.
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Durante un mio viaggio in auto in Irlanda, riesco a contattare (potenza della rete!) Maura Maffei, una delle autrici di un bel romanzo “Quel che abisso tace”.
Maura ha avuto un parente disperso su quella nave.
L’autrice mi indica alcuni paesini della costa, dove la pietà degli irlandesi ha avuto il sopravvento sulla crudeltà della guerra e hanno provveduto a tumulare i prigionieri spiaggiati sulle coste. In alcune città hanno costruito addirittura delle cappelle ricordo.
Per me, il punto relativamente più vicino, è Ballycastle.
Dopo due ore di viaggio, arrivo in mezzo a quattro case lungo una strada, di fronte l’Oceano Atlantico. Praticamente la Finisterre dell’Irlanda.
Nessuno in giro. All’ufficio postale, che fa un po’ da tutto, pub, market ecc, una signora capisce il mio inglese militare (lì parlano quasi esclusivamente il gaelico…!) e mi indirizza al cimitero, spiegandomi che in effetti, un morto della nave è sepolto ancora lì, nel “left corner”. Mi fa capire che, al tempo, lì misero anche alcuni resti dei prigionieri italiani raccolti sulla spiaggia, in quel punto.
Cerco di chiedergli dove poter acquistare un mazzo di fiori.
Mi guarda come se fossi matto, e mi indica i numerosi fiori lungo le strade; il suo gesto inequivocabile con la mano destra mi dice che posso prenderli. Faccio un mazzolino.
Al cimitero, in un angolo isolato a sinistra, in effetti trovo una tomba solitaria di un soldatino inglese.
Isolata completamente dai “residenti” di BallyCastle.
Il “Private” E.G. LANE del “The Devonshire Regiment”, matricola 5619142, morto effettivamente il 2 luglio 1940 alla età di 21 anni.
Il soldato Lane era uno di quelli destinati al servizio di guardia dei prigionieri.
Anche lui imbarcato. Anche lui morto annegato il 2 luglio 1940.
Assieme agli altri 800 e passa trasportati.
Uno scherzo della guerra, uno di quei tanti.
Il mio mazzolino di fiori vale per tutti loro.
Il mio viaggio in Irlanda ha avuto il suo scopo.
La Arandora Star siamo tutti noi

