Il mondo visto dagli 8.000 metri, l’alpinista lucchese Riccardo Bergamini si racconta

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La montagna riscuote da sempre un fascino immenso nell’essere umano, un luogo in cui si è a stretto contatto con la natura e che permette di avere una visione del mondo autentica e unica dal suo punto più alto. Neve, ghiaccio, roccia, laghi cristallini, boschi incantati, sono gli elementi tipici del mondo montano, mentre il sacrificio, la perseveranza e la curiosità, sono alcune delle caratteristiche intrinseche di chi vive la montagna con uno spirito appassionato. Il mondo raccontato dalle vette più alte del pianeta è differente, lo sa bene Riccardo Bergamini, alpinista lucchese, autore di imprese memorabili. Spesso si è spinto oltre gli 8.000 metri, come quando ha raggiunto il Cho Oyu (8.201 metri di altitudine) in Tibet, o il Manaslu (8.163 metri) in Nepal, ma la sua voglia di avventura lo ha portato anche in Sud America quando ha raggiunto il punto più alto dell’Alpemayo (5.947 metri) in Perù, o in Nord America come l’anno scorso quando è stato sul monte Denali (6.194 metri), in Alaska. In totale ha affrontato circa 15 spedizioni, ma la montagna è bella tutta, come ci tiene a dire, dalla Alpi Apuane alla catena delle Alpi. Quindi con grande disponibilità Riccardo ci ha concesso un’intervista a cuore aperto.

Come nasce la tua passione nei confronti dell’alpinismo?

La montagna mi ha attratto fin da quando ero bambino. Spesso andavo sulle Alpi, sulle Dolomiti con i miei genitori, non facevamo attività di puro alpinismo, ma mi piaceva la natura che avevo intorno, dai boschi ai laghi. Facevamo delle passeggiate e quello che mi incuriosiva di più era osservare le vette dei monti, chiedendomi cosa ci fosse al di là del loro profilo. Nutrivo una grande voglia di conoscere che cosa si trovasse dall’altra parte. In qualche modo possiamo dire che questa passione sia nata in modo spontaneo, infatti quando avevo 15 anni, un giorno presi il mio motorino, il Grillo, e andai da solo fino a Piglionico, dove inizia il sentiero per salire sulla Pania della Croce e mi incamminai per raggiungere la vetta. Ero spinto da una grande voglia di conoscenza.

Quindi hai un bel rapporto con le Alpi Apuane…

Certamente, le Alpi Apuane sono bellissime e le frequento ogni settimana, sia d’estate che d’inverno. Ovviamente mi sono utili per il mio allenamento, pensa che sulla cima della Pania della Croce ci sono stato almeno 700 volte. Recentemente sono salito sul Monte Pisanino, ho goduto di uno spettacolo unico, quando ho visto il suo profilo riflesso sulla Garfagnana, e sul Monte Croce che con il suo verde e i suoi fiori mi hanno dato il bentornato dopo il lockdown. Poi d’estate vado spesso sulle Alpi, sia per allenamento sia per divertimento, dal Monte Rosa al Monte Bianco, perché sono fondamentali per affrontare poi l’Himalaya.

Hai raggiunto alcune delle vette più alte del mondo, ma qual è l’impresa che ti ha lasciato di più il segno?

Ho superato per due volte la soglia degli 8.000 metri di altitudine, sempre senza l’ausilio dell’ossigeno, ma la prima volta, quando nel 2013 sono arrivato sulla cima del Cho Oyu, mi sono davvero emozionato. Si sta fuori di casa per circa 35/40 giorni, ma è stata un’esperienza che ha lasciato il segno nella mia vita, una svolta nella mia carriera di alpinista. Oltre all’impresa in sé anche il contesto in cui si è svolta è stato unico, perché questo monte si trova in Cina, ma nel territorio del Tibet e per due giorni sono rimasto bloccato per mano dei militari cinesi. In più, ho condiviso questo viaggio con Mario, un amico e compagno di avventura che è scomparso poco tempo dopo per mano di una valanga. Per questo nutro un sentimento ancora più profondo per il Cho Oyu.

Altrettanto importante è stata la volta dell’Alpemayo in Perù, che ho affrontato con alcuni alpinisti famosi, tutto in modo autonomo, senza ossigeno e supporto dei telefoni satellitari. Venti giorni di pura avventura, in cui ci montavamo da noi il campo base, ed è stato bellissimo. Anche l’esperienza che ho fatto un anno fa mi ha dato grande soddisfazione, quando sono andato in Alaska per salire sulla vetta più alta del Nord America, il monte Denali. Lo scenario è completamente diverso rispetto anche al Nepal, qui subito a 2.000 metri ti trovi in mezzo ai ghiacciai. Comunque sono riuscito a vedere gran parte di questo territorio, con la sua splendida natura, compresi i leoni marini. Indimenticabile.

Cosa si prova a vedere il mondo da oltre 8.000 metri?

Si prova una grande soddisfazione, anche se dopo la prima volta mi ero ripromesso di non salire più fino agli 8.000 metri. Avevo perso fino a 13 chilogrammi quando stavo salando sul Cho Oyu, ero talmente affamato che sognavo il supermercato, ma non riuscivo a mangiare e non riuscivo a bere. Arrivato ai 7.600 metri, per giungere alla cima che ne distava altri 600, ho rinunciato anche allo zaino. Quando invece sono salito in vetta al Manaslu, in Nepal, non sono riuscito a trattenere le lacrime per la gioia. Ero al secondo tentativo, la prima volta avevo fallito, ma stavolta ci ero riuscito. La soddisfazione è stata enorme, come togliersi di dosso un grosso peso sulla schiena. Avevo affrontato un anno di sacrifici, la tensione era molta, la paura altrettanta, ma alla fine il risultato è stato incredibile, pura gioia.

Secondo te, perché l’uomo si spinge fino a raggiungere la vetta di una montagna?

La cosa è sicuramente molto soggettiva, per quanto mi riguarda io sono sempre stato spinto dal vedere che cosa ci fosse dall’altra parte della montagna. Poi, un ruolo fondamentale lo gioca anche la ricerca della soddisfazione personale, ad esempio quando lo scorso anno mi sono trovato sulla vetta dell’Alaska a -40 gradi, vedere tutto lo scenario che avevo intorno, dai ghiacciai alla punta d’America, mi ha riempito d’orgoglio. Per qualcuno può essere una sfida personale, per me non è così, anzi è un momento di riflessione su stesso, sulla vita, sulla famiglia. A volte non si apprezzano veramente le piccole cose, ci si lamenta di tutto. Ad esempio, una volta di notte mi sono accampato sopra i 7.000 metri, mi ero già sistemato dentro al sacco a pelo, ma non senza lamentele dovetti uscire dalla tenda, indossando di nuovo i ramponi e affrontando il gelo. Quando però sono uscito fuori e ho osservato il cielo vedendo tutte le stelle, un vero e proprio mare di stelle, mi sono accorto che facevo male a lamentarmi perché altrimenti non avrei visto quell’incredibile spettacolo.

Quali sono le virtù che deve possedere un buon alpinista?

Innanzitutto l’umiltà, non si deve credere di essere troppo bravi e invincibili, bisogna invece possedere una certa dose di paura, perché in montagna i pericoli ci sono, sono tangibili. Quindi quel senso di timore reverenziale ti aiuta a dire di no e a metterti in guardia di fronte agli ostacoli che possono comportare dei rischi per la vita. Spesso e volentieri nell’alpinismo bisogna fare delle rinunce e tornare indietro, anche a me è capitato a volte, come nel 2018 quando in Nepal stavo cercando di raggiungere una vetta in cui mai nessun italiano era riuscito ad arrivare, ma sono dovuto tornare indietro perché i rischi erano troppo grandi. Meglio tornare a casa.

Negli ultimi tempi sembra esserci stata una riscoperta della montagna, specialmente dopo il periodo di lockdown, che cosa ne pensi?

La montagna regala un grande senso di libertà, si sta all’aria aperta, ci sono spazi grandi e si viene a contatto con la natura. In queste zone si possono trovare il verde, cascate, laghi, vedere splendidi tramonti, in poche parole si può osservare la bellezza della natura. Probabilmente, dopo il periodo di reclusione forzata a casa per via della quarantena per il Covid-19, la gente ha voluto ritrovare il senso della libertà e, come dicevo prima, ha riscoperto la montagna. In più metti che gli italiani sono un popolo al quale piacere stare insieme, in comitiva, così le passeggiate per i monti diventano un modo per fare qualcosa di diverso, ma stando insieme.

So che hai 7 figli, cosa pensano i tuoi bambini delle tue imprese?

Di solito mi hanno fatto sempre una grande festa, realizzando striscioni, cartelli e facendomi un sacco di complimenti. Ovviamente il senso dell’impresa cambia a seconda dell’età, chi è più piccolo la percepisce in modo molto diverso, però credo che tutti ne siano molto contenti. Per loro è una soddisfazione vedermi sui giornali, in tv, sui libri o quando mi è capitato di andare a parlare nelle loro scuole. Certo, quando sono fuori di casa io a loro manco tanto, ma anche loro mancano molto a me. Non obbligo nessuno di loro a seguire le mie orme, sono liberi di scegliere le loro passioni, se mi chiedono di andare in montagna ce li porto volentieri, altrimenti non impongo a nessuno di fare quello che faccio io.

Hai dei nuovi progetti in programma, pensi di tornare sulle vette dell’Himalaya?

Prima del Coronavirus il mio progetto era quello di tornare in Nepal verso ottobre o novembre. Insieme ad una guida, avevo intenzione di andare su una montagna inviolata di oltre 6.500 metri, dove nessuno è ancora mai salito fino in cima. Purtroppo questa situazione ci crea al momento molti dubbi, perché ci vuole una certa preparazione per affrontare una traversata del genere, non possiamo improvvisarla all’ultimo. Purtroppo il lockdown ha causato molto problemi anche al Nepal, un Paese che vive quasi esclusivamente di turismo, in particolar modo occidentali, quindi abbiamo bisogno di trovare agenzie che possano aiutarci nell’impresa, ma non è per niente facile e probabilmente saremo costretti a posticipare il tutto.

Tommaso Giacomelli
Tommaso Giacomelli
Giornalista e giurista, le passioni sono per me un vero motore per vivere la vita. Sono alla ricerca inesausta della verità, credo nel giornalismo libero e di qualità. Porterò il mio contributo a "Lo Schermo" perché si batte per essere una voce unica, indipendente e mai ordinaria.

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