Il calcio come metafora di vita: nell’era di Fifa Ultimate Team non esistono più zaini e felpe per fare i pali e giocare con gli amici

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L’idea di questo pezzo mi è venuta quando, per l’ennesima volta, ho sentito pronunciare la parola “prospetto”. Prospetto che? Era un ragazzino, forse ventenne, che parlava di calcio come fosse un esame universitario. Viaggiavamo sullo stesso treno regionale, la tratta Lucca – Firenze, divenuta ormai la mia seconda casa. Lui, insieme ad alcuni amici, snocciolava numeri di assist, cross dal fondo, passaggi riusciti, skills. Sì, ha detto skills.

Tranquilli non siamo finiti tutti in uno sketch di Mr Bean, questa parola è semplicemente la traduzione di abilità in italiano. È che tutto quel vocabolario mi proiettava dentro un mega file di ecxel applicato però a uno sport che mi aveva innamorato da bambino per la sua imprevedibilità, per quei movimenti con il pallone che sembravano disegnati da Picasso, per il piattone di Baggio ai mondiali del ’94, che a due minuti dalla fine della partita contro la Nigeria agli ottavi di finale cambiò la storia di quella Nazionale e anche del nostro paese per venti giorni, mi creava confusione in testa.

Provate a pensare a un ingegnere che analizza la metrica di Bitter Sweet Symphony dei “The Verve” o a un chimico che ci spiega il fenomeno Oasis. Ecco, mi sentivo così. Confuso e (poco) felice. Mi domandavo cosa fosse successo in questi anni a quel gioco che per noi, non ancora così vecchi, era semplicemente due zaini per terra in un parcheggio o in un campo polveroso, partite infinite fino al tramonto, ginocchia senza il primo strato di pelle, urla delle nostre mamme che avevano perso notizie di noi, la conta per fare le squadre e la classica battuta: “chi lo fa il portiere oggi?”. Pensate un po’, io ero sempre il portiere. Sono stato sfigato fino da bambino.

Oggi chissà come passano i pomeriggi questi ragazzi, nell’età digitale del nostro pianeta, dove reale e fantasy si sovrappongono e rischiano di apparire la stessa cosa. Giocheranno ancora a calcio con gli zaini e le felpe a fare da pali della porta? Oppure è meglio avere una buona connessione a casa, il termosifone acceso, la merenda nel frigorifero, e l’ultima versione di Fifa 21 per sfidarsi a FUT Ultimate Team? Il dubbio mi è venuto perché è lì, all’interno di quella vita virtuale, che ti puoi sentire una star e decidere se mandare in campo nel tuo attacco ideale Kane oppure Ibrahimovic. Lì ci sono tutti quei numeri di cui parlava quel giovane sul treno: grafici, curve, statistiche. Forse lo sport, il suo ideale più autentico, viene superato dalle possibilità della tecnologia, forse è qui che oggi ci si proietta nel nostro vivere, senza pensare e renderci conto cosa lasciamo dietro mentre noi corriamo verso quello che ci hanno abituato a chiamare futuro.

Torniamo all’inizio, al motivo di questo pezzo e quindi alla parola prospetto. Ma ci rendiamo conto che oggi, noi semplici fruitori e tifosi, se vediamo un giovane che con la palla ci sa fare lo chiamiamo prospetto? Nemmeno fossimo i successori di Mino Raiola che con il calcio ci facciamo i soldi. Prospetto di che? Quello che stai vedendo è un essere umano, è una persona con una storia, non è solo un potenziale generatore di soldi ed economie in uno sport che probabilmente ha perso la sua verità. Eppure il gioco del pallone era nato come uno sport popolare, un simbolo di rinascita per molti popoli, di riscatto per bambini cresciuti in povertà, un simbolo di uguaglianza perché dentro a quel rettangolo non ci sono differenze, discriminazioni, colori. Tutti dovevano avere la possibilità di salire sul tetto del mondo o diventare dei campioni, come è accaduto a quel bambino che voleva vincere i mondiali che si chiamava Diego Armando Maradona, come è accaduto al portiere più forte di tutti i tempi, il russo Lev Yashin, che aveva imparato a parare la palla in una fabbrica metallurgica intercettando gli oggetti lanciati in aria dagli altri operai.

Sembrano storie scritte sui libri e poco reali, sembra un’altra civiltà, invece è semplicemente il nostro passato. Perché non possiamo ricominciare dal nostro passato? Siamo sicuri che quella dell’innovazione a tutti i costi sia la strada giusta? Pensiamo al calcio come metafora di vita, alla sua fotografia più vera, al profumo dell’erba, all’odore di olio canforato nella borsa e confrontiamolo con questo tempo in cui ormai in ogni paese c’è un campo sportivo in sintetico.

Mi pare la stessa storia del caffè nella cialda. Ci raccontano (e qualcuno lo racconta anche a se stesso) che è più buono, che è come al bar, ma alla fine il caffè nella cialda lo beviamo perché è più comodo della moka, perché si fa prima, non per il gusto. Come il campo in sintetico: è più utile, si gestisce meglio, ma non ditemi che su quei terreni di gomma, una volta utilizzati per il tennis e per il calcetto, dove si dilettavano quelli che non sapevano giocare, si faccia calcio. Smettiamola di convincerci che il futuro sarà dentro a un videogame, perché il futuro dovremmo essere necessariamente noi. Le persone.

Andrea Spadoni
Andrea Spadonihttp://www.andreaspadoni.com
A 25 anni potevo aver già fatto tutto: il diploma di ragioniere, il lavoro in banca e la villetta a schiera. Non è andata così. Sono un giornalista mio malgrado, e oggi mi guadagno da vivere aiutando le persone a comunicare su internet, ma il mio sogno è sempre stato quello di tagliare il prosciutto di Parma al banco di una gastronomia.

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