Roberto Bartolozzi.

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Due targhe commemorative a Lucca, a pochi metri di distanza l’una dall’altra, lo ricordano. Una in Via Santa Croce, al civico 62

e una in Piazzetta San Quirico, sul muro del vecchio cinema ex chiesetta di San Quirico all’Ulivo.

Roberto Bartolozzi nasce a La Spezia, il 23 aprile 1914

Morirà in combattimento a Lucca, il 30 giugno 1944.

E non il 29 come erroneamente è scritto sulle due lapidi!

Perché lui muore alle 02,45 del 30 giugno, ancorché ferito il 29. Ma la data della morte è il giorno 30.

Di errori in questa storia ne troveremo molti.

Operaio della TETI, la azienda telefonica toscana, di profonda convinzione comunista, a diciannove anni partecipa volontario alla guerra in Tripolitania, dalla quale ritorna profondamente sconvolto. Quindi si sposta a Lucca, e si sposa con Linda Bessolo dalla quale ha una figlia, Anna Maria.

Entra in contatto con gli elementi dei primi Comitati di Liberazione tra i quali Carlo del Bianco, un professore del Liceo Classico “Machiavelli”, che con alcuni suoi studenti organizza il primo nucleo di resistenza in Garfagnana, sotto l’Alpe di Corfino. Parleremo anche di lui.

Il Bartolozzi è un tipo risoluto e determinato; spicca tra tutti per decisionismo e determinazione. Organizza localmente delle squadre di persone antifasciste, le Squadre Azione Patriottica (S.A.P.) che operano in città e nella immediata periferia. È in contatto anche con le formazioni delle Apuane e della Garfagnana. Di fatto è il comandante militare della S.A.P. di Lucca. Si da molto da fare per aiutare gli ufficiali inglesi in fuga e gli ebrei perseguitati. È documentata questa silente attività; con l’amico Michele Lombardi, aiutano la signora Lida Frisini di Lunata a mettere in salvo cinque membri della famiglia ebrea dei Gabbai.

Nell’estate del 1944, il 29 giugno il Bartolozzi ha preparato una azione spettacolare che gli consentirà di recuperare armi e munizioni, materiali rari e dei quali sono a corto. I rifornimenti degli Alleati arrivano sulle montagne e non nelle città. C’è forte carenza di tutto. La sua squadra è armata con armi leggere, qualche pistola, fucili da caccia…

Per questo ha organizzato un duplice assalto alle Caserme dei Reali Carabinieri del Borgo Giannotti e successivamente a quella di San Concordio. L’assalto è studiato nelle prime ore della sera del 29 giugno 1944, quando la vigilanza è ridotta e comunque si conta di riuscire senza problemi nella duplice impresa, grazie alla complicità di alcuni carabinieri che in realtà fiancheggiano la Resistenza.

Il punto di ritrovo è la sede di lavoro del Bartolozzi: la centrale telefonica della TETI in Via Santa Croce nr 62, dove sono nascoste anche le poche armi di cui dispongono. Il personale che dovrà operare attende sul muretto del fosso davanti Porta San Gervasio. Dopo l’azione fuggiranno utilizzando dei carretti da netturbini. È tutto pronto.

Ma c’è un imprevisto.

Vannuccio Vanni, uno dei partigiani che è maggiormente impegnato nella lotta, effettua una ricognizione finale agli obiettivi e vede che le caserme sono presidiate da camionette tedesca. A Lucca il 17 giugno è giunto in città il segretario del Fascio Repubblicano Pavolini, per assegnare a Idreno Utimpergher il compito di costituire la 36° Brigata Nera “Mussolini” che scorterà il duce fino alla fine della tragedia, a Dongo. Utimpergher vergognandosi del cognome che termina con la lettera “erre” si farà italianizzare il nome in “Utimperghe”, ma questo non lo salverà pochi mesi dopo dalla fucilazione alla schiena con Pavolini, sul lungolago di Como.

C’è quindi un gran fermento in città, tra la Guardia Nazionale Repubblicana che arruola i pochi fascisti rimasti nella caserma di Sant’Agostino, e i tedeschi che stanno finendo di attestarsi sulle posizioni difensive della Linea Gotica, a nord di Lucca.

Questa novità operativa fa propendere per l’annullamento dell’azione perché ritenuta troppo pericolosa.

Il Bartolozzi con i suoi uomini rientra nella centrale della TETI di Via Santa Croce, dove in un locale seminterrato vengono nascoste le armi. Ma all’uscita il piccolo gruppo viene fermato per accertamenti dal personale dell’U.P.I. l’Ufficio Politico Investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana.

Di fatto i fascisti stanno tenendo d’occhio il Bartolozzi perchè il giorno prima hanno catturato un partigiano, un certo Diena, che in tasca ha un biglietto con scritto sopra un solo nome: Roberto.

Diena è di La Spezia, come Roberto Bartolozzi.

Inevitabile pensare ad un collegamento.

C’è una collutazione iniziale, il gruppo di partigiani si disperde, ma la polizia insegue Roberto che scappa verso il centro città.

La corsa termina nei pressi del Cinema “Littoria” poi “Vittoria”, in Piazza San Quirico. Nel dopoguerra, siccome la Vittoria era svanita, sarà più conosciuto dalla mia generazione come Cinema “Mignon”…

Qui la scena degenera violentemente; appare una pistola nelle mani di uno dei militi. L’avvocato Giulio Carignani che diventerà il primo Prefetto nominato dopo la Liberazione, richiamato dalle urla, cerca di interviene per pacificare gli animi. La pistola cade a terra e parte un colpo.

Interviene a dar man forte anche l’Avv. Mario Frezza che abita li vicino, in Via Sant’Andrea, e fa parte anche lui, segretamente, del C.L.N. locale.

Sono le 22,30.

La collutazione continua e partono alcuni colpi che raggiungono il Bartolozzi ferendolo. I tre fascisti si allontanano, e il Bartolozzi riesce a trascinarsi dentro la cabina di proiezione del cinema per sottrarsi agli aggressori. Sopraggiungono altre persone, e di corsa richiamato dalla confusione e dai colpi, un ufficiale della G.N.R., che è a cena al ristorante “Passeggiero” in Piazza dell’Arancio, dove oggi c’è un grande negozio di abbigliamento per bambini. Sopraggiungono altri militi fascisti.

Viene esplosa una raffica di mitra; i soliti siti gestiti dagli “pseudostorici” un tanto al kilo, addirittura parlano di mitra “sten”;lo Sten è una pistola mitragliatrice inglese, ed è assolutamente improbabile che fosse in mano ad uno dei fascisti nella estate del ’44. Non foss’altro per l’ideologico nazionalismo che preferiva le armi di produzione nazionale come il Beretta MAB 38 volgarmente denominato “Mitra”.

ll Bartolozzi ferito gravemente, per ripararsi, si è trascinato nella cabina di proiezione del cinema, che ha l’accesso in Via Fatinelli; ormai è in fin di vita. La caccia all’uomo termina. I fascisti se ne vanno, non prima di averlo derubato, e la pietà della gente fa accorrere i soccorritori della Misericordia che lo trasportano nel nuovo ospedale Campo di Marte dove alle 02,45 del 20 giugno 1944, muore per «ferita d’arma da fuoco alla regione sacrale sinistra con foro di uscita alla coscia anteriore destra ed una ferita transfossa al terzo inferiore della stessa coscia con foro d’entrata lateralmente e foro d’uscita medialmente in basso».

Quindi DUE colpi di arma da fuoco, non tre, né trentadue, come erroneamente scritto su alcuni siti “storici”.

Prima di morire in ospedale, il Bartolozzi viene interrogato, e per depistare dichiara di essere stato vittima di una rapina, derubato di mille lire.

A lui, unico caso a Lucca, sono dedicate ben due lapidi commemorative, con la datazione del decesso, errata di un giorno, come abbiamo visto.

Dopo la sua morte il ruolo di comandante della formazione verrà preso dal Ten. Bonacchi.

Vicino alla targa del vecchio cinema, c’è verniciato sul muro un grande simbolo rotondo, in bianco e nero, con in mezzo dipinta la lettera “I” che indica “Idrante”; era l’indicazione che li sotto, in corrispondenza della lettera “I” c’era un  pozzetto per la presa d’acqua della rete antincendio;

In Pelleria su un muro c’è ancora un simbolo con una grande “R”, per indicare che li sotto c’è un “Rifugio”. Queste indicazioni erano gestite dall’U.N.P.A., la pomposa Unione Nazionale Protezione Antiaerea, una sorta di Protezione Civile dell’epoca che doveva garantire la salvezza di cittadini dai bombardamenti, affiancando i Vigili del Fuoco. La parola “protezione” stride con il fatto che l’UNPA era di fatto dedicata essenzialmente, anche se non esclusivamente, alla rimozione delle macerie dei feriti DOPO il bombardamento, non proteggendo nessuno dagli effetti iniziali, ma dispensando consigli, mettendo dei bidoni di acqua nei rifugi, dei sacchi di sabbia, facendo oscurare i vetri ecc. e intervenendo DOPO che il bombardamento era stato fatto; quindi che razza di “protezione” in senso letterale, svolgeva?

Ben poca…

Vittorio Lino Biondi
Vittorio Lino Biondi
Sono un Colonnello dell'Esercito Italiano, in Riserva: ho prestato servizio nella Brigata Paracadutisti Folgore e presso il Comando Forze Speciali dell'Esercito. Ho partecipato a varie missioni: Libano, Irak, Somalia, Bosnia, Kosovo Albania Afganistan. Sono infine un cultore di Storia Militare.

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